lunedì 23 febbraio 2009

TEMPESTA DI DEBITI

Tempesta di debiti
[Da Der Spiegel e Internazionale]

[Mentre si discute di "bad bank" e di "bailout", l'Italia arriva alla crisi finanziaria mondiale con il terzo debito pubblico più consistente al mondo].

Qual è la differenza tra socialismo e capitalismo? Nel socialismo le banche prima vengono nazionalizzate e poi falliscono, mentre nel capitalismo succede il contrario. Molti conoscevano già questa battuta quando l’hanno sentita dire ad Angela Merkel. Ma naturalmente ascoltarla dalle labbra della cancelliera tedesca, che in questi giorni è costretta a nazionalizzare le banche, fa un altro effetto. In una serata di gennaio, a Francoforte sul Meno, durante un evento organizzato dalla banca Metzler, Merkel ha messo in guardia dalle conseguenze dell’eccessivo indebitamento pubblico e ha pronunciato due frasi significative: “Si dice che gli stati non possano fallire”. Breve pausa: “Be’, è una voce priva di fondamento”. è vero, anche gli stati possono fallire. Per esempio quando hanno debiti così alti che non riescono più a pagare gli interessi. Il senso delle parole della cancelliera era che il governo deve fissare un limite ai suoi debiti. Non deve sopravvalutare le sue capacità di salvare l’economia, altrimenti rischia di essere travolto dalla crisi. Le somme che gli stati devono raccogliere per proteggere il sistema finanziario dal collasso sono in costante crescita. E gli sforzi dei governi si stanno intensificando a causa delle conseguenze drammatiche della crisi sull’economia reale. Tutto è cominciato con il crollo dei mutui ipotecari statunitensi, ma nel giro di pochi mesi l’economia mondiale ha dovuto affrontare la più grave minaccia dai tempi della grande depressione degli anni trenta. I governi hanno messo a disposizione delle banche miliardi di euro sotto forma di garanzie, crediti e aiuti diretti. Questo denaro è in gran parte andato in fumo e ora, quasi dappertutto, sono previsti nuovi interventi. La parola del momento è bailout, salvataggio: significa che lo stato libera le banche dai loro debiti. Ma questo non vuol dire che i rischi spariscono, cambiano semplicemente proprietario: passano allo stato, cioè ai contribuenti. Nessuno, però, sa quanto sia alto il prezzo da pagare e se alla fine lo stato sarà davvero in grado di pagarlo. Le somme in gioco sono nell’ordine di migliaia di miliardi. Secondo l’economista statunitense Nouriel Roubini, le perdite del settore finanziario statunitense sono arrivate a 3.600 miliardi di dollari. Finora ci sono stati circa 1.000 miliardi di dollari tra perdite e svalutazioni in tutto il mondo. Ma se anche lo stato andrà in crisi, chi lo salverà? Se nessuno sarà più disposto a fargli credito, sarà costretto a fallire. La bolla del debito pubblico è l’ultima bolla concepibile. Incredibile? Fino a un anno fa la nazionalizzazione dei debiti delle banche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania sembrava impensabile, mentre oggi a molti sembra una cosa naturale. Pochi mesi fa la nazionalizzazione dei colossi dei mutui Federal national mortgage association (Fannie Mae) e Federal home loan mortgage association (Freddie Mac) avrebbe suscitato uno scandalo.

Siamo tutti keynesiani

Oggi il clima è cambiato, tutti invocano l’aiuto dello stato e il suo denaro. Perfino il Wall Street Journal ha intitolato di recente un articolo: “Siamo di nuovo tutti keynesiani”. E il finanziere George Soros chiede apertamente la nazionalizzazione delle banche. Già, perché nelle scorse settimane la situazione economica degli Stati Uniti è peggiorata drasticamente. Quasi ogni giorno arrivano notizie di licenziamenti e, dopo le ultime cifre poco rassicuranti, cresce la paura di altre voragini nei bilanci delle banche. Il governo guidato da Barack Obama adotterà presto una strategia chiara. “Il presidente annuncerà misure eccezionali per prendere il controllo della situazione”, assicura Kenneth Rogoff, docente di economia all’università di Harvard. Si parla di una parziale statalizzazione dei principali istituti di credito e di una bad bank pubblica, cioè una società creata appositamente per comprare tutti i titoli spazzatura invendibili. Secondo Simon Johnson, docente di economia al Massachusetts institute of technology (Mit) ed ex capo economista del Fondo monetario internazionale (Fmi), i costi della bad bank sarebbero di circa mille miliardi di dollari. Ma la rottamazione dei titoli non sarà suficiente. “Le banche dovranno essere ricapitalizzate”, sottolinea Johnson, e per farlo serviranno altri 250 miliardi di dollari. Di fronte a queste cifre, Obama ha detto chiaramente, già prima del suo insediamento, cosa succederà nei prossimi anni: “Dovremo convivere con un deficit di migliaia di miliardi”. Questo significa che i pericoli per la stabilità economica sono enormi: il deficit di bilancio degli americani ha già raggiunto i livelli della seconda guerra mondiale. Negli ultimi tre mesi del 2008 le spese degli Stati Uniti hanno superato di circa 480 miliardi di dollari le entrate. E nel 2009 si prevede un deficit di circa 1.200 miliardi di dollari, pari all’8 per cento del pil. Inoltre Obama vuole far approvare un pacchetto di misure anticrisi da circa 800 miliardi di dollari, che farebbero aumentare il deficit fino all’11 per cento del pil. A questo si aggiungono altre uscite legate alla recessione, come per esempio i costi crescenti della previdenza sociale. Obama, infatti, non vuole rinunciare ai costosi progetti di riforme del suo programma elettorale, come l’assicurazione sanitaria per tutti gli statunitensi. Già ora quasi tutte le entrate dello stato vengono fagocitate da quattro grandi voci di spesa: il welfare, la difesa, la sanità e gli interessi sul debito pubblico. Tutto il resto deve essere finanziato con nuovi debiti. Un fatto pericoloso, innanzitutto perché i compratori per i titoli di stato americani, cioè degli strumenti con cui lo stato finanzia i suoi debiti, potrebbero diminuire. Secondo gli esperti, il rischio è ancora contenuto. Anzi, la domanda di titoli del tesoro americano, considerati relativamente sicuri, è insolitamente elevata. “Tuttavia, se il prossimo tentativo di salvataggio dell’economia fallirà, la credibilità finanziaria degli Stati Uniti ne uscirà compromessa”, avverte Johnson. In ogni caso, aggiunge Rogoff, gli americani avvertiranno chiaramente gli effetti dell’indebitamento. Per anni l’inflazione resterà alta, fino al 6 per cento. “E per un lungo periodo, forse sei o sette anni, assisteremo a una crescita annua molto lenta, intorno all’1 o al 2 per cento”. Nel prossimo futuro, inoltre, Obama non potrà fare a meno di alzare le tasse per sostenere il bilancio pubblico. Leonard Burman, capo del Centro indipendente di politica iscale, avverte: “Spendere mille miliardi per impedire il crollo economico mondiale è un investimento giusto. Ma se non stiamo attenti alle conseguenze a lungo termine, ci troveremo di fronte a una crisi economica molto peggiore di quella attuale”. Gli Stati Uniti non sono i soli ad avere problemi.
La Gran Bretagna è sull’orlo del baratro: gli immobili sono sopravvalutati, le famiglie sono indebitate pesantemente, il settore finanziario non riesce a riprendersi. La fiducia nelle capacità del paese di uscire dalla crisi diminuisce sempre di più, come si vede dalla drammatica svalutazione della sterlina: oggi la moneta britannica vale circa 1 euro, mentre pochi mesi fa era ancora a 1,4. “Non investirò più in Gran Bretagna”, dichiara il finanziere Jim Rogers, mentre l’economista Willem Buiter, ex consulente della Banca d’Inghilterra, mette in guardia dal “rischio che il paese faccia la fine dell’Islanda”. L’Italia ha il terzo debito pubblico al mondo, pari al 106 per cento del pil nazionale. Finora questo fatto non costituiva un grave problema, dato che il paese ha sempre avuto una quota consistente di risparmio. Bastava far arrivare i risparmi nelle tasche dello stato: a questo servono i Buoni del tesoro (Btp), che oggi, secondo il ministro dell’economia Giulio Tremonti, rappresentano “l’investimento in assoluto più solido e sicuro”. Ma negli ultimi tempi non tutti sono d’accordo, e meno che mai gli italiani. Così l’emissione di titoli di metà gennaio ha trovato compratori solo dopo che il tasso d’interesse è stato alzato in modo consistente. E quest’anno scadranno titoli di stato a breve termine per un valore di 220 miliardi di euro. A dicembre il ministro del lavoro Maurizio Sacconi ha messo in guardia dal pericolo di una completa bancarotta dello stato se i Btp restassero invenduti: “Ci potrebbero essere problemi nel pagamento degli stipendi e delle pensioni, e finiremmo come l’Argentina”. Bilanci in deficit. La Gran Bretagna come l’Islanda, l’Italia come l’Argentina. Non c’è da stupirsi che i cittadini si preoccupino. Mai prima d’ora, dai tempi della grande depressione, era stato adombrato il pericolo del fallimento di uno stato in Europa. I bilanci della maggior parte dei paesi dell’Unione europea non sono in buone condizioni. Gli esperti finanziari della Commissione europea stimano che il deficit pubblico nei sedici stati della zona euro raggiungerà il 4 per cento del pil quest’anno e salirà al 4,4 per cento l’anno prossimo. Secondo gli accordi di Maastricht, nell’Ue la soglia massima consentita sarebbe il 3 per cento, ma 17 stati membri la supereranno già nel 2010. Tra questi ci sono tutti i grandi paesi – la Germania (4,2 per cento), la Francia (5 per cento), la Spagna (5,7 per cento) e la Gran Bretagna (9,6 per cento) – e alcuni stati più piccoli come l’Irlanda, che prevede di arrivare al 13 per cento. Sono previsioni ancora sulla carta. “Ma prima o poi,” avverte il ministro delle finanze austriaco Josef Pröll, “arriverà il momento di pagare il conto”. Con i suoi colleghi dell’Ue, Pröll ha lanciato un appello per un cambiamento di rotta. “Agli stimoli fiscali”, spiega, “deve seguire al più presto il risanamento dei bilanci”. Ma nessuno sa ancora come farlo. Alla commissione economia del parlamento europeo, il commissario dell’Ue per gli affari economici e monetari, Joaquín Almunia, è stato sommerso di domande su questo argomento. Almunia ha annunciato che raccomanderà ad almeno sei paesi di ridurre il loro deficit di bilancio, ma non ha spiegato come dovranno farlo. Alcuni stati non prendono neanche in considerazione l’idea di sanare i loro conti. Al contrario, si sforzano di immettere la massima quantità di denaro nell’economia. E con il tempo diventerà sempre più difficile riequilibrare i bilanci. “Sui mercati finanziari i paesi piccoli sono schiacciati da quelli più grandi, che assorbono sempre più miliardi con le loro emissioni di titoli di stato”, hanno rinfacciato ad Almunia i deputati del parlamento europeo. “È vero”, ha risposto il commissario, ma non si può certo “abolire il libero mercato dei capitali”. Per risolvere il problema, Jean-Claude Juncker, capo del governo e ministro delle finanze lussemburghese, ha proposto che i sedici paesi della zona euro emettano titoli di credito comuni, gli Eurobond. L’idea ha raccolto consensi tra i piccoli, ma ha incassato un netto rifiuto dai grandi, in particolare da Berlino. Finora il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrück è riuscito a ottenere denaro in prestito a condizioni particolarmente vantaggiose, perché la Germania è considerata un debitore molto afidabile. Ma se dovesse riempire le sue casse con gli Eurobond, Berlino dovrebbe pagare tre miliardi di euro in più già quest’anno. Anche Pröll è poco convinto: secondo lui, gli Eurobond sono come dare “il permesso di contrarre debiti a spese degli altri”. Alcuni paesi dell’Unione continuano a indebitarsi da anni senza preoccuparsi delle conseguenze, ma con la crisi attuale non fanno che peggiorare i loro problemi. Devono pagare interessi più alti sui titoli, perché la loro credibilità di debitori è sempre più bassa. I più colpiti sono la Spagna, l’Italia, l’Irlanda e soprattutto la Grecia. Chi deve prendere denaro in prestito così a caro prezzo scivola presto in un diabolico circolo vizioso di tassi sempre più alti, che a loro volta comportano nuovi debiti. A quel punto le agenzie di rating abbassano il giudizio sull’afidabilità del paese e i tassi salgono ancora. In passato paesi come l’Italia, la Grecia e la Spagna avevano risolto il problema svalutando le loro monete: in questo modo diminuiva il peso degli interessi sul debito pubblico e si assicuravano migliori prospettive alle esportazioni. Oggi con la moneta unica non possono più farlo. Questi vecchi rimedi sono tabù, a meno di non voler uscire dalla zona euro. La possibile disintegrazione di Eurolandia è un tema molto discusso sui mercati finanziari. Ma la possibilità che i paesi troppo indebitati escano spontaneamente dalla moneta unica non è contemplata dagli accordi comunitari. E del resto è poco verosimile, perché aggraverebbe i problemi: la loro credibilità sarebbe ancora più bassa, i crediti diventerebbero ancora più cari e i vecchi debiti dovrebbero essere saldati comunque in euro. E con una moneta svalutata i costi salirebbero ulteriormente. Il commissario europeo per le imprese e l’industria Günter Verheugen ritiene che la prospettiva dell’abbandono della moneta unica faccia parte di una campagna “contro l’euro lanciata dagli speculatori anglosassoni”. Ma in realtà cosa succede quando fallisce uno stato della zona euro? Prendiamo per esempio la Grecia, che nei prossimi due anni ha bisogno di 48 miliardi per saldare i vecchi debiti e che nel frattempo deve tappare dei nuovi buchi nel suo bilancio. Se la Grecia si dichiarasse insolvente, eviterebbe conseguenze peggiori per il momento grazie all’appartenenza alla zona euro. La moneta unica si svaluterebbe un po’, ma dal momento che l’economia greca non ha una grande rilevanza in Europa, le ripercussioni sarebbero contenute. Anche le conseguenze per la Grecia resterebbero limitate: grazie all’euro, che comunque è una valuta forte, non ci sarebbe nessuna crisi del mercato al dettaglio né accaparramenti delle merci né la nascita di un mercato nero. Quindi non ci sarebbe nessuna ripercussione nell’economia reale né un aumento della disoccupazione. La vita di uno stato insolvente difeso dall’Ue è relativamente facile. Ma è molto più importante capire come reagirebbe Bruxelles. Potrebbe dichiarare la Grecia un caso straordinario e sostenerla con un prestito ponte, ma le conseguenze sarebbero fatali: per quale motivo, infatti, i paesi più deboli dovrebbero preoccuparsi in futuro di saldare i loro debiti, sapendo che c’è sempre qualcuno pronto a dargli una mano? L’Ue, al contrario, potrebbe assumere una posizione più rigida. Questo sarebbe giusto nei confronti degli stati membri che hanno tenuto in ordine i loro bilanci, ma non sarebbe sostenibile in termini politici. Gli investitori, infatti, comincerebbero a evitare tutti gli stati su cui grava anche il più piccolo sospetto di scarsa solvibilità. A quel punto il rischio paese aumenterebbe e il virus greco comincerebbe a estendersi ad altri paesi, che rischierebbero di fallire. Questo caso, del tutto teorico, preparerebbe effettivamente la fine dell’euro: la moneta unica può reggere la bancarotta di un paese, ma non una serie di fallimenti. Rating vacillanti Gli euroscettici avevano avvertito fin dall’inizio che un giorno la moneta unica avrebbe potuto frantumarsi a causa delle tensioni all’interno della zona euro. Ora vedono confermati i loro timori, anche se per ora scenari simili sono solo ipotetici. La Germania, per esempio, non ha grossi problemi di inanziamento. Ma di fronte alle voragini miliardarie che si aprono ogni giorno, anche gli acquirenti dei suoi titoli di stato cominciano a preoccuparsi. Molti investitori si chiedono già oggi come si presenti il futuro per gli stati con un rating AAA, il giudizio di massima afidabilità. L’équipe di Alexander Kockerbeck, analista dell’agenzia di rating statunitense Moody’s, ha sottoposto l’economia tedesca a una simulazione: ha raccolto i dati relativi agli scenari più pessimisti, e per gli anni 2010 e 2011 ha previsto un crollo dell’economia tedesca pari al 3 per cento all’anno. Nei suoi modelli il debito pubblico è salito dal 70 all’80 per cento del pil. “In questo caso per far pagare gli interessi legati al debito pubblico bisognerebbe usare circa il 7 per cento del gettito fiscale”, spiega Kockerbeck, che ritiene questa quota ancora sostenibile per Berlino. Se gli interessi arrivassero al 10 per cento delle entrate fiscali, invece, la valutazione AAA comincerebbe a vacillare, facendo esplodere i costi dello stato. Normalmente, in una situazione di rating elevato e di congiuntura favorevole, i governi contraggono debiti con una procedura piuttosto semplice. In Germania, per esempio, lo stato emette titoli a rendimento fisso con scadenze che possono variare da un giorno a trent’anni. Altri paesi, come la Francia e la Gran Bretagna, emettono addirittura obbligazioni cinquantennali. La collocazione dei titoli di stato avviene per lo più grazie a delle aste, dette tender, nel corso delle quali i compratori fanno le loro offerte. Quanto più alto è il numero di acquirenti, tanto più vantaggiosa è l’emissione per lo stato e tanto più basso è il tasso d’interesse. L’abbattimento del debito pubblico, invece, è una questione molto più complessa. In teoria lo stato dovrebbe rimborsare i prestiti alle scadenze fissate. Ma succede molto raramente: di regola i governi non estinguono i debiti, ma li rinnovano. Anzi, ogni anno contraggono nuovi prestiti, e così fanno aumentare gli interessi. Già oggi la Germania spende 43 miliardi di euro all’anno di interessi sul debito pubblico. è la seconda voce di spesa nel suo bilancio. L’unico settore in cui Berlino spende di più è la previdenza sociale. Ma se i tassi d’interesse arrivassero ai livelli elevati raggiunti nel 1995, già oggi la Germania sarebbe costretta a spendere 20 miliardi di euro in più all’anno. Senza contare gli altri debiti che potrebbe contrarre in futuro a causa della crisi economica. Nessuno sa fino a che punto aumenterà l’indebitamento né come farà lo stato a liberarsene prima che il pagamento degli interessi lo strangoli. Il metodo più difficile per rimborsare i prestiti è risparmiare, quello più facile è usare l’inflazione, cioè stampare denaro fresco con cui pagare i debitori. L’inconveniente dell’inflazione è che quando la banca centrale immette nuove banconote nel sistema economico, la moneta si svaluta. Poco male, visto che l’obiettivo principale dello stato è sbarazzarsi dei suoi debiti. Qualunque sia il metodo attuato, il conto lo pagano i contribuenti. Nei periodi di crisi l’abbattimento del debito pubblico attraverso il rimborso dei titoli è possibile solo se il governo alza le tasse o taglia la spesa pubblica. La svalutazione della moneta causata dall’inflazione, invece, è compensata dai prezzi crescenti. Finora il processo ha funzionato in modo piuttosto nascosto. Dalla fine degli anni novanta la quantità di denaro in circolazione è triplicata sia negli Stati Uniti sia in Europa. E con l’attuale diluvio di liquidità le banche centrali vogliono impedire il crollo del sistema finanziario e dell’economia reale, ma stanno spianando la strada alla prossima crisi. Il costo del denaro è molto contenuto: la Federal reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, ha abbassato il tasso di sconto praticamente a zero, mentre la Banca centrale europea si è fermata al 2 per cento, anche se sono molto probabili altre riduzioni. Se le misure di salvataggio funzionano e l’economia si riprende, le autorità monetarie aumenteranno di nuovo i tassi facendo rientrare il pericolo dell’inflazione. Se invece la crisi continua e le banche centrali immettono altra liquidità nel sistema, potrebbe subentrare una fase di inflazione galoppante, che aprirebbe le porte alla bancarotta dei paesi troppo indebitati. Fenomeno universale In uno studio realizzato per l’Fmi, gli economisti statunitensi Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno analizzato le crisi finanziarie degli ultimi otto secoli, arrivando alla conclusione che la bancarotta dello stato “è un fenomeno praticamente universale”.
Molti paesi ne hanno affrontata perfino più di una. La Francia, per esempio, si è trovata in condizioni di insolvenza otto volte tra il 1500 e il 1800. La Spagna è fallita sette volte nell’Ottocento. Situazioni di questo tipo si sono verificate in tutte le epoche e in ogni parte del mondo. Quindi sarebbe sbagliato credere che la bancarotta dello stato sia “una particolarità della finanza moderna”. Nella maggior parte dei casi il tracollo finanziario è stato causato dall’enorme fabbisogno di capitale provocato dalle guerre. Ma i governi sono sempre riusciti a evitare la rovina totale. Hanno dimostrato una straordinaria inventiva nel trovare il modo per liberarsi dei loro obblighi a spese delle banche, delle imprese e soprattutto dei cittadini. La soluzione più semplice è rifiutarsi di pagare i debiti. Andò così nel 1557, quando il re di Spagna, Filippo II, non fu più in grado di restituire i prestiti ottenuti per finanziare le sue campagne militari contro i Paesi Bassi e l’impero ottomano. Le grandi banche tedesche dei Fugger e dei Welser subirono un tracollo da cui non riuscirono più a riprendersi. Ma la crisi delle finanze statali diventò ancora più facile da risolvere quando si diffuse la cartamoneta. A quel punto bastava solo disporre di una macchina da stampa. I francesi cominciarono a usare questo metodo nel settecento per ridurre gli enormi debiti lasciati dal re Sole, Luigi XIV. E da allora i governi hanno sempre avuto questa tentazione. Nel 1914 il Reich tedesco decise di abbandonare il sistema aureo, in base al quale chiunque poteva scambiare le proprie banconote con la quantità di oro che rappresentavano. Così il denaro in circolazione balzò rapidamente da 13 a 60 miliardi di marchi, mentre l’offerta di merci diminuì di un terzo. Di conseguenza, i prezzi salirono alle stelle. Questi sviluppi culminarono nel 1933 in un periodo di iperinflazione: all’epoca per comprare un dollaro bisognava sborsare 4,2 miliardi di marchi. Le banconote tedesche venivano stampate in più di 130 tipograie private. Solo una radicale riforma valutaria avrebbe potuto frenare la svalutazione del denaro. Da allora la paura dell’iperinflazione e della perdita dei risparmi è profondamente radicata nella memoria collettiva, soprattutto in quella dei tedeschi.

Ora è il momento di avere di nuovo paura?

In confronto a molti altri paesi, la Germania se la cava abbastanza bene: ha un’economia relativamente solida, non dipende fortemente dal settore finanziario, come la Gran Bretagna, né è costretta a fare troppo affidamento sugli investitori stranieri, come succede agli Stati Uniti. L’Islanda, invece, è praticamente sul lastrico e nell’Europa orientale ci sono molti paesi, come la Lettonia, che devono chiedere aiuto all’Fmi e alla Banca dell’Europa orientale. Nella zona euro alcuni stati dovrebbero sicuramente lottare per la loro sopravvivenza se non fossero protetti della moneta unica. Gli Stati Uniti, infine, puntano sul fatto che, nonostante i loro enormi problemi, sono ancora considerati sicuri e che il dollaro resiste grazie all’enorme quantità di capitale investito dai cinesi nei titoli di stato di Washington. Tutto bene, allora? Chi crede che gli stati abbiano imparato dagli errori del passato si illude, avvertono Reinhart e Rogoff. In realtà, potrebbe succedere ancora che un paese fallisca. In qualsiasi momento. Una cosa comunque è chiara: in questa crisi non c’è più niente di impensabile.

“Internazionale”, n. 782

giovedì 19 febbraio 2009

FALLIMENTO STRATEGICO

Luigi Cavallaro e Riccardo Realfonzo - 18 Febbraio 2009

Le dimissioni di Walter Veltroni da segretario del Partito democratico hanno un significato eminentemente politico, ma segnano anche un punto di svolta nella contesa tra paradigmi alternativi di politica economica. Esse ratificano infatti un percorso fallimentare che sarebbe ingeneroso attribuire alla sola volontà del segretario dimissionario, ma che questi ha comunque perseguito con tenacia: la rescissione di ogni legame fra gli eredi del Partito comunista italiano e quella tradizione, che potremmo definire “solidaristico-keynesiana”, che aveva ispirato la redazione delle norme fondamentali della nostra “costituzione economica”.

Quali esse siano è ben noto. L’art. 41 Cost., che – dopo aver affermato che l’iniziativa economica è libera – stabilisce che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da ledere la sicurezza, la libertà e la dignità umana e demanda alla legge il compito di definire i “piani e programmi” opportuni perché l’iniziativa pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. L’art. 42, che enuncia il diritto di proprietà solo per attribuirgli una funzione sociale e disciplinarla in modo da renderla accessibile a tutti. L’art. 43, che riserva alla proprietà pubblica (ed eventualmente a “comunità di lavoratori”) la produzione e distribuzione di servizi pubblici essenziali o di beni in regime di monopolio naturale o che abbiano preminente interesse generale. L’art. 44, che disciplina la proprietà terriera prevedendo obblighi e vincoli che assicurino equi rapporti sociali.

Ma si debbono aggiungere (e approssimando comunque per difetto) l’art. 36, che assicura al lavoratore una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente a garantire a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa; l’art. 37, che garantisce piena equiparazione fra uomo e donna anche sul lavoro (non senza precisare che il raggiungimento dell’eguaglianza richiede una legislazione di favore per le donne); l’art. 38, che garantisce che siano provveduti i mezzi a chi si trova nell’impossibilità di lavorare per infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria; e certamente l’art. 39, che istituisce il contratto collettivo nazionale come forma principe per la determinazione della “giusta retribuzione”.

Ebbene, ripercorrendo a ritroso le scelte di politica economica sostenute dalla maggioranza di coloro che del Partito democratico sono stati ispiratori (ossia i superstiti dell’ala cattolico-sociale della Democrazia cristiana e i liquidatori del Partito comunista italiano) è agevole verificare come siano state tutte di segno opposto rispetto al quadro delineato dalla nostra Costituzione. L’adesione acritica – talora perfino ridicola – a tutti i dettami dell’ortodossia economica di ispirazione neoclassica e di segno politico monetarista ha fatto sì che, durante le loro esperienze di governo (incluse quelle immediatamente successive al terremoto politico del 1992), essi hanno provveduto a privatizzare il patrimonio industriale, bancario e produttivo pubblico, depotenziare fino a svilirlo il contratto nazionale di lavoro, comprimere l’area di applicazione della legislazione a tutela del lavoro, abbattere la garanzia pubblica per le pensioni, liberalizzare i prezzi dei mercati immobiliare e mobiliare, imbrigliare entro rigidi paletti quantitativi e “federalisti” le leve collettive della politica fiscale e di bilancio e ridurre consequenzialmente il lavoro pubblico ad un’area di nullafacenti (poco) privilegiati – quasi mai per cattiveria loro, beninteso, ma spesso semplicemente per mancanza di mezzi con cui lavorare. E dall’opposizione, essi hanno contestato i governi in carica solo perché (ed in quanto) non facevano altrettanto.

I risultati di questo lavoro ultradecennale, certificati dalla perdita secca dei salari sul piano distributivo e dal correlativo innalzamento delle quote appropriate dalla rendita (specie finanziaria e immobiliare) e dai profitti, hanno progressivamente eroso il bacino di consenso dell’Ulivo, poi dell’Unione e ora del Partito democratico, fino a ridurlo all’attuale lumicino. Mentre il “bisogno di comunità” indotto dalla feroce dinamica che un mercato concorrenziale assume in una periferia capitalistica, quale indubbiamente è il nostro Paese, ha aperto spazi prima inimmaginabili al voto a destra: un voto pesantemente segnato da Dio, Patria e Famiglia, ma che ai lavoratori, sommersi e non, appare ormai senz’altro preferibile rispetto allo stolido inno alle magnifiche sorti e progressive del capitalismo concorrenziale, al quale credono ormai soltanto gli ultimi giapponesi de lavoce.info.

E’ comprensibile che dal Popolo delle Libertà si levi commosso l’onore delle armi per il segretario dimissionario: nessuno come il capo dell’attuale classe dirigente del Partito democratico ha fatto così tanto per assicurare all’avversario una vittoria così durevole. Altra questione è se quel partito potrà risollevarsi dopo una bancarotta materiale e ideale così pesante: si tratta al momento di una scommessa così aleatoria che si farebbe fatica a trovare un buon credit default swap.

da: www.economiaepolitica.it

giovedì 5 febbraio 2009

Nuovo tribalismo

giovedì, 05 febbraio 2009
Il Nuovo Tribalismo
Cosa lega la crisi economica che si e’ abbattuta sul villaggio globale e le manifestazioni xenofobiche degli ultimi giorni?

Un filo diretto e invisibile accomuna il gesto incomprensibile di tre ragazzi che per provare una forte emozione danno fuoco ad un barbone nella stazione di Nettuno e gli scioperi selvaggi che imperversano in Inghilterra contro i lavoratori stranieri; e questo legame, paradossalmente, lo ritroviamo anche nelle stanze del potere della nuova amministrazione americana, che propone un programma di salvataggio economico condizionato all’acquisto di prodotti ‘esclusivamente’ americani.
Ben tornati nella tribu’!
Poiche’ questo e’ lo slogan con il quale si apre il recessivo 2009.

Di fronte ai primi veri problemi economici la globalizzazione si sgretola. Tendenze protezioniste minano il WTO, gli accordi faticosamente stipulati dall’organizzazione mondiale del commercio sembrano ormai carta straccia, anche i fondamenti dell’Unione Europea sono messi a durissima prova dagli scioperi in Gran Bretagna. A Davos, tempio sacro della globalizzazione, Russia e Cina apertamente accusano l’America di non saper ‘guidare il mondo’ ed a Washington le fronde protezioniste fanno stragi di liberal al congresso.
Alla base di queste reazioni, che soltanto sei mesi fa’ sarebbero state reputate assurde, c’e’ la paura.

La paura della disoccupazione spinge un sindacato laburista a schierarsi con la destra nazionalista e antieuropea britannica e la paura che l’America precipiti nella seconda Grande depressione convince il primo presidente afro-americano a proporre riforme protezioniste. E infine la paura, non la noia o la droga, motiva i giovani italiani a commettere un crimine da Arancia Meccanica.
Il mondo globalizzato e’ un pianeta che spaventa, popolato da gente terrorizzata dal diverso e dalla diversita’. Ce ne stiamo accorgendo solo adesso che la recessione ci accomuna nella disgrazia, ma da vent’anni chi vive ai margini del villaggio globale - dove il processo di omogeneizzazione non ha portato pace e prosperita’ ma il proliferarsi delle guerre o il dilagare della poverta’ - convive con questa paura. Molti, specialmente i giovani, si sono protetti ricreando la struttura tribalista dei branchi.

Dalle Maras centro americane alle gangs britanniche, dalle bande di adolescenti Nigeriane fino alle cellule jihadiste, il branco e’ la risposta ai timori ed alla minaccia della globalizzazione. E la matrice comune del nuovo tribalismo e’, naturalmente, la violenza. Le bande oggi come ieri combattono la paura con la violenza, e la violenza è ormai diventata uno stile di vita. In un documentario britannico, Gang Wars (guerre tra bande), il leader di una banda londinese, Taba, sostiene che la violenza «durerà per sempre, perché è la gente a essere violenta».

La violenza simboleggia anche l’onore e l’orgoglio, l’identita’ del singolo e il metro per decidere l’appartenenza o il rifiuto di entrare in una banda. Per essere ammessi nelle moderne tribù è necessario superare un duro rito di passaggio. Gli aspiranti mareros si sottopongono a una complessa e dolorosa prova, che ricorda quelle imposte dalle sette sataniche medievali. Devono uccidere un membro di una banda rivale o assistere a un’esecuzione.
“La prima volta che ho visto una decapitazione avevo dieci anni. Per un mese intero sognai il morto che veniva verso di me con la testa tra le mani. Poi, con il tempo, ci si abitua agli omicidi e quando capita che un tuo amico uccida uno di un’altra banda sei contento, anzi lo tormenti pure mentre sta morendo. Ti diverti.” Racconta Necio un ventenne membro di Mara Salvatrucia, una banda di El Salvador. La violenza e’ dunque anche sinonimo di divertimento, ed il comportamento dei tre delinquenti italiani ne e’ la riprova.

La pura del diverso serpeggia da anni anche nel villaggio globale, la ritroviamo nel lessico della guerra contro il terrorismo. La politica della paura del presidente Bush ce lo ripropone, anzi lo catapulta nell’arena politica internazionale. Pensate al suo famoso discorso all’indomani dell’11 settembre. Bush divide il mondo in due gruppi: «chi è con noi e chi è contro di noi». Una frase che secondo il Guardian e’ "la più cruda espressione della politica tribale mai concepita". Come possiamo definire LORO e NOI se, ad esempio, gli attentatori suicidi di Londra erano cittadini britannici? La nazionalità, il vecchio nazionalismo quindi, non è più l’unica causa determinante né una categoria valida. Il tribalismo sembra adattarsi meglio al nuovo scenario.

Anche senza volerlo noi finiamo per assimilare il lessico tribale e quando ci sentiamo minacciati, a reagire sono i nostri istinti tribali Cosi chi sciopera in Scozia contro i lavoratori italiani e portoghesi dichiara apertamente che sciopererebbe anche se questi fossero inglesi o gallesi, lo sciopero mira infatti a proteggere la forza lavoro locale. E la solidarieta’ manifestata da altri lavoratori nel territorio di sua maesta’ ha gli stessi obbiettivi: proteggere il proprio orticello. Il pericolo e’ quindi che anche il tessuto nazionale delle organizzazioni sindacali, gia’ seriamente indebolito dal governo Thatcher, si sgretoli completamente.

Sono scenari questi agghiaccianti, che ci devono far riflettere sull’involuzione in atto in un pianeta in preda alla recessione. Poco meno di un secolo fa’, il crollo di Wall Street fece precipitare il mondo nella Grande depressione, preludio della follia nazista che sfocio’ nella seconda guerra mondiale. Anche allora a guidare l’ascesa del nazismo sulle ceneri della repubblica di Weimar fu la paura del diverso, uomini donne e bambini con in petto una stella di Davide gialla. Anche a casa nostra c’erano i diversi, appartenevano al movimento operaio perseguitato dalle camicie nere. La simbologia cambia ma la sostanza resta: la paura e’ un grandissimo strumento di manipolazione collettiva, e quindi e’ solo questo che dobbiamo temere perche’ domani i diversi potremmo essere proprio noi.

Loretta Napoleoni

da: http://lanapoleoni.splinder.com/post/19768075/Il+Nuovo+Tribalismo