giovedì 23 agosto 2007

Giorgio Bocca: la napoletanità non salva Napoli

Lo scrittore Raffaele LaCapria ha elaborato una sua teoria per mettere d’accordo la Napoli della borghesia colta ed europea a quella della camorra sanguinaria e selvaggia.La borghesia napoletana, dice, è rimasta traumatizzata dalla rivoluzione del1799 e dalla repressione sanfedista che ne fece la plebe napoletana con strage di migliaia di persone e con un odio che arrivòa casi di cannibalismo.La Napoli di quelli che guardano a Londra o a Parigi ha il terrore che la bestia plebea si risvegli e la divori. Ha perciò tentato di gettare una testa di ponte verso questo mondo feroce e imprevedibilee ha inventato negli ultimi due secoli la napoletanità, un modo di essere napoletani comune ad entrambi, accettabile da entrambi:il napoletano come lingua comune, le superstizioni,le canzoni, la pizza e i maccheroni, il paesaggio stilizzato delle pastiere, il teatro di Viviani e De Filippo,il cielo e i colori delGolfo.Una teoria elegante ma consolatrice perché la napoletanità non è stata inventata negli ultimi secoli da una borghesia preoccupata ma egemone, ma è lacultura popolare napoletana come si è elaborata nei millenni ed è una cultura non estranea alla camorra,ma sua complice, sua compagna di strada.Nell’analisi della camorra,osserva l’antropologo MarinoNiola, viene sottovalutato il peso dei fattori culturali di cui la borghesia,e prima di lei l’aristocrazia,sono, se non responsabili,complici come il culto della furbizia e del raggiro, la prepotenza e l’arroganza del più forte,l’affermazione del proprio particulare,del proprio io, il doppio gioco fra superstizione e religione, fra tradizione e modernità. In città come Napoli, dicevaBenedetto Croce, «non si è ancora cominciato a portar via le immondiziedel Duecento». E questo nei vicoli come nei palazzi nobiliari o nei quartieri residenziali.La maschera di Napoli, Pulcinella, è il prodotto di questa ambiguità, maschio e femmina, vivo e morto, sciocco e intelligente,insidiosamente servile e senza limiti superbo, irriverente e cortigiano,a volte ottuso a volte furbo, ma sempre come se avesse una forma superiore di ragione. Sulla scena impersonato da Totò, il teatrante principale.La dea della fecondità napoletana cambia nome, ma è sempre la stessa: la Cerere delle spighe mature o la santa Patrizia. San Gennaro nasce nel quartiere dove è nata Santa Patrizia, che è lo stesso in cui sorgeva il tempio di Cerere, e prima che La Capria inventasse la napoletanità,essa celebrava i suoi saturnali a Piedigrotta, le sue feste dissipatrici nei palazzi dei principi, le sue vendette sanguinarie nei bassi e portava in processione Maradona, dipinto su un drappo in posa da condottiero o disegnato suun muro di Secondigliano con in testa la corona dell’Addolorata.Ricordare a un napoletano che la cultura in cui è nato è una cultura tollerante fino alla complicità è impossibile.Avendo scritto sulla moltiplicazione degli impieghi e delle commissioni, l’amico Isaia Sales mi ha osservato: «Tutto si può dire di Bassolino e dei suoi collaboratori tranne di non aver lottato e rischiato in prima persona contro gli abusi, l’illegalità,la camorra».Ma se Napoli è quella che è nonostante gli onesti, è segno che il suo modo di essere non funziona.Quella di La Capria è una teoria elegante ma consolatrice. Se la città è quella che è, nonostante gli onesti, è segno che il suo modo di essere non funziona
(Giorgio Bocca)
da: http://demo.extra.kataweb.it/eolextrademo/index.jsp?giornale=espresso&ref=esphpedi

giovedì 16 agosto 2007

I camorristi non dimenticano

Io Saviano, condannato a morte

di Gianluca Di Feo

La sentenza dei Casalesi: aspetteremo il momento giusto. La vita blindata senza più libertà. Le paure per i familiari. E il coraggio di scrivere e accusare. Per dare una speranza ai giovani. Colloquio con Roberto Saviano


Sono tardarielli ma non scurdarielli. "I Casalesi arrivano tardi, ma non dimenticano mai". Lo spiegò ai magistrati l'unico vero pentito della camorra casertana, ricostruendo come i boss avessero atteso 11 anni prima di eseguire la sentenza contro un loro nemico. Hanno fatto calmare le acque, ridotto al minimo l'attenzione sulla vittima e solo a quel punto sono partiti i killer. Clemenza o perdono non gli appartengono: i signori della nuova mafia hanno dimostrato con il piombo e con il sangue che la loro parola è peggio di una fatwa. Perché loro sanno ricordare. Oggi le dichiarazioni raccolte nelle carceri e l'attività informativa nel triangolo dei boss, tra Casapesenna, Casal di Principe e San Cipriano d'Aversa, il feudo dei Casalesi, sono concordi: anche contro Roberto Saviano è stato emesso il verdetto. I padrini hanno lasciato in bianco solo la data dell'esecuzione: "Basta aspettare, verrà il momento giusto. E allora si chiuderanno i conti". L'autore di 'Gomorra' non si sente un condannato a morte. Quando gli poni la domanda, il volto si illumina con un sorriso ingenuo che tradisce i suoi 28 anni. Perché non accetta nemmeno l'idea di essere costretto all'esilio: "Napoli mi manca tantissimo. Come per tutte le cose che si perdono aumenta il carico di nostalgia. La mia esperienza viene da lì". Oggi può tornare a Napoli quando vuole, circondato però da carabinieri e auto corazzate. E ogni movimento deve essere concordato con la scorta. Il che lo spinge a stare chiuso in casa, a leggere e scrivere. Ma senza radici, senza succhiare linfa alla vita reale, tutto diventa un isolamento sterile. Un incubo che fa passare in secondo piano ogni altra preoccupazione. "Paura non ne ho. Fin quando c'è la parola, la possibilità di trasmettere le proprie idee, quella è la vera difesa. Certo, con il mio lavoro ho esposto anche i miei familiari. L'unico motivo per cui ho maledetto il mio libro è per le pressioni che hanno subito i miei cari e di cui non mi perdonerò".
Attorno a lui spesso c'è il vuoto. Il condominio del centro di Roma dove viveva in una stanza da studente ha protestato per la quiete disturbata dalla scorta. E i vicini della madre hanno addirittura scritto al Comune chiedendo che alla donna venisse 'assegnata una residenza più sicura': un modo burocratico per chiederne il trasloco. Alla 'Süddeutsche Zeitung' ha parlato di una quotidianità randagia, senza fissa dimora, senza più punti cardinali. Tranne quello che considera più importante: la scrittura. "Scoprire quanto potesse essere potente la scrittura è stato uno choc. Non solo per lo sconvolgimento totale della mia esistenza. In genere, un libro non riesce a influire sulla vita dell'autore. Invece intorno a 'Gomorra' si è creato subito un passaparola, una catena di persone che attraverso il libro si sentivano a me vicine e io ho sentito questo contatto con loro. Non avrei mai immaginato tanto. Due siti Web di solidarietà, la vicinanza di amici nuovissimi che hanno protetto le mie parole. E quella di alcuni colleghi".Ci tiene anche a ricordare le persone che si sono occupate della sua sicurezza, gli stessi investigatori che portano avanti le indagini sui Casalesi: il coordinatore della Procura antimafia di Napoli, Franco Roberti; i pm Antonello Ardituro e Raffaele Marino, il colonnello Gaetano Maruccia. A Raffaele Cantone, il pubblico ministero che conduce i processi più importanti contro la camorra casertana, lo unisce anche la pressione continua dei clan. E c'è poi Tano Grasso che lo ha consolato con l'esperienza di chi ha vissuto sotto scorta per un intero decennio. Molte cose l'hanno sorpreso negativamente. "Soprattutto l'accusa di aver infangato la mia terra. Di aver speculato sul suo dolore. C'è stata prima diffidenza e poi ostilità per il modo con cui ho raccontato la criminalità. Da molta intellighenzia napoletana e dal mondo puritano delle lettere che si è sentito invaso da nuovi codici, nuove visioni e soprattutto nuovi lettori".Poi c'è stata una gelosia verso il successo, come se fosse frutto di chissà quale operazione di marketing editoriale. "Invece 'Gomorra' sancisce l'ascesa del lettore e dimostra la grande possibilità della scrittura. Rivoluzionaria. Perché non è la scrittura che apre la testa, non è lo scrittore che rende liberi i lettori. No: è il lettore che rende libero lo scrittore, che cancella la censura. Pamuk, Politkovskaja, Rushdie - che hanno dovuto affrontare situazioni ben più gravi della mia come testimonia il sacrificio della giornalista russa - hanno imposto le loro idee grazie alla spinta dei lettori. È un meccanismo che trasforma il mercato, legando consumo e libertà di scrittura".
Innegabile che le prime minacce dei padrini campani abbiano fatto da volano al successo del volume. "Sono rimasti spiazzati pure loro. Finora in quel territorio persino l'omicidio di un sindacalista non aveva fatto notizia, persino il piano per assassinare un magistrato con il tritolo già pronto non era arrivato sui media nazionali. Non si preoccupavano di intimidire un ragazzotto che aveva scritto un libro di cui si parlava troppo: perché avrebbe dovuto mai attirare attenzione?". La lezione di 'Gomorra' non è passata inosservata anche dentro le altre mafie: le pagine stampate hanno cominciato a dare fastidio. Saviano cita la vicenda di Lirio Abate, costretto a lasciare Palermo dopo il saggio sui complici illustri di Provenzano. Il segno di un'insofferenza crescente contro chi smaschera il vero volto della nuova mafia. Per i Casalesi quella dello scrittore è diventata una sfida continua. Il discorso sulla piazza di Casal di Principe, chiamando per nome i padrini latitanti e invitando la gente a ribellarsi, non è stata perdonato. Poi la presenza in tribunale nel giorno della requisitoria, di fronte ai killer detenuti. "Da anni la criminalità organizzata non si trova più davanti persone che vogliano svelare il meccanismo delle loro attività, il sistema del loro potere. Hanno preso comeuna sfida il mio guardargli in faccia. Loro accettano i professionisti: accettano di venire descritti negli atti dei magistrati, degli avvocati, degli investigatori e in qualche misura anche dei giornalisti. Non accettano invece la mia volontà di usare strumenti 'sporchi' che non possono gestire. Personaggi come Raffaele Cutolo sanno condizionare l'immagine: hanno cercato la pubblicità, le interviste. Ne hanno fatto come uno strumento. Cutolo o altri boss come Augusto La Torre invece hanno reagito perché 'Gomorra' ha spezzato lo schema. Si sono sentiti gestiti da qualcun altro: gli piace essere raccontati, ma alle loro condizioni. La piazza di Casale? Ho chiesto ai cittadini di cacciare i boss, gli ho spiegato che la camorra non portava ricchezza, ma la distruggeva. Nessuno pronuncia mai quei nomi in pubblico a Casale e quel giorno in piazza c'erano tanti ragazzi: bisognava farlo".Nel pensiero di Saviano c'è un chiodo fisso: la questione meridionale. Un concetto su cui si è discusso fino al punto da renderlo logoro, svuotandolo di ogni proposta e soprattutto di qualunque progetto. Ma che oggi si incarna nella realtà di una generazione senza futuro. "Una speranza può nascere solo dai giovani meridionali. La mia è l'unica generazione che emigra in massa, l'unica dagli anni Cinquanta. Si sta imponendo un modello culturale secondo il quale chi resta è un incapace, un fallito, un traffichino. È una cosa pericolosa, contro la quale bisogna reagire. Perché si lasciano andare via i talenti migliori e si spengono le speranze di chi resta, destinandolo a un futuro di mediocrità". E accusa: "La politica ha perso la sua carica riformista, che era stata una caratteristica continua del dopoguerra". Elenca come modelli Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato, Ernesto Rossi. "Se i politici di oggi si fossero formati su questi libri, invece di avere sul comodino gli scritti di Ho Chi Min o di altri mostri sacri del '68, adesso riuscirebbero a inquadrare i problemi. Il Sud ha prodotto pensatori che avevano capito tutto. Bisogna ripartire da lì: non dimenticare che esiste una questione meridionale".Ma il Sud cambierà? Saprà reagire alla grande slavina che lentamente sommerge la vita civile, l'imprenditoria, la cultura, la politica. Saviano schiera un'ironia amara e inverte il canone di Giacomo Leopardi: "Io ho l'ottimismo della ragione e il pessimismo della volontà".
Cambiare richiederà tempo, almeno un'intera generazione: "Nemmeno io riuscirò a vederlo. Ma se non si comincia, non accadrà mai. Io credo che ci siano realtà che non hanno l'ossessione del turismo, l'idea di un Meridione ridotto a bacheca. Ci sono imprenditori agricoli che recuperano l'eccellenza, maestranze tra le migliori in Europa nel cemento, una leva dinamica di piccoli imprenditori che sono la forza dell'economia campana". Già, ma sono anche i settori più esposti all'assalto della mafia. "Certo, la criminalità organizzata investe dove c'è eccellenza e potenzia queste aziende. Non è vero che la camorra non genera crescita. No. Ma genera una crescita distorta, che non migliora la qualità della vita delle persone; che fa arricchire solo pochi e trasferisce i capitali lontano. È una crescita che impoverisce il Sud". L'altra faccia della medaglia è una classe politica e intellettuale che considera lesa maestà denunciare il dramma della regione. "Sono un'intellighenzia che parla solo di presunta bellezza e ignora i problemi reali. Spendono ore per Caravaggio e non si guardano intorno. È ora di finirla con questo sistema. Chi osserva non ignora la bellezza di Napoli ma proprio da essa parte per denunciare: da Caravaggio bisogna apprendere la forza del guardare in faccia la vita. Loro invece si cullano in una visione consolatoria del Sud, una visione che piuttosto che essere innovativa è terribilmente oscurantista".I leader di partito lo hanno quasi corteggiato, stupiti dalla sua capacità di parlare ai giovani. Da Fassino a Fini, da Visco a Berlusconi, tanti gli hanno trasmesso interesse e manifestato solidarietà. "A parole, ci sarebbero nell'intero arco costituzionale le condizioni per rilanciare la lotta alla camorra". La prova di concretezza verrà anche dalle risposte all'appello del procuratore Roberti, che ha invocato le migliori forze per rispondere alle nuove minacce dei Casalesi. Perché in Campania la grande politica fa come i boss: latita. "Fausto Bertinotti è stato l'unico esponente nazionale ad andare a Casal di Principe, non era mai accaduto prima". Saviano è rimasto colpito dalla scoperta che anche nella base della destra, inascoltata spesso dalle dirigenze, è ancora viva quella mobilitazione antimafia, punto di forza del Msi legalitario di Almirante. Un risveglio che diventa provocazione verso il torpore della sinistra. "È stato bello vedere che c'è una forma di destra sociale che sul territorio sta riscoprendo l'orgoglio di un'identità che non scende a patti con la camorra. La sinistra continua a vivere in un equivoco. Gli slogan sono quelli che vengono da un passato di militanza concreta, ora non hanno più niente dietro. Ma la consapevolezza degli elettori è superiore a quella dei politici. O la politica lo capisce o è finita".
(16 agosto 2007)

da: L'Espresso

mercoledì 15 agosto 2007

Effetto Gomorra

Casalesi, operazione Gomorra

L’allarme del procuratore Franco Roberti: sappiamo che Saviano e il pm Cantone sono nel mirino, chiediamo che vengano schierati gli investigatori migliori contro la camorra casertana. E che ci siano sforzi eccezionali per catturare i padrini latitanti. Perché i Casalesi sono diventati una nuova mafia, che ha infiltrato l’economia e le istituzioni

Il procuratore Franco RobertiLeonardo Sciascia diceva: "I mafiosi odiano i magistrati che ricordano". E i Casalesi odiano anche gli scrittori che fanno conoscere a tutto il mondo il loro vero volto». Franco Roberti, responsabile della Direzione distrettuale antimafia campana e procuratore aggiunto di Napoli, conosce i movimenti sotterranei nelle famiglie casertane. Quegli indicatori che nelle ultime settimane indicano tempesta. Ed interviene con un'intervista a "L'espresso" ? che sarà in edicola domani - pesando le parole una a una, conscio della serietà della situazione: «C'è tutta una serie di segnali che evidenziano come il clan dei Casalesi si stia interessando a investigatori come Raffaele Cantone e a scrittori come Roberto Saviano che hanno provocato con il loro lavoro la sprovincializzazione del fenomeno camorra e fatto conoscere al mondo il vero volto della mafia casalese». «Di questa situazione nei confronti di Cantone e Saviano noi della Direzione distrettuale di Napoli siamo assolutamente consapevoli. Per questo stiamo premendo perché vengano a lavorare nel Casertano i migliori investigatori italiani. Per questo da settembre chiederemo rinforzi quantitativi e qualitativi negli organici degli uffici di polizia che indagano in quell'area». Quello di Roberti è un discorso irrituale. Con bersagli chiari: «Chiederemo uno sforzo eccezionale per la cattura di latitanti storici: Antonio Iovine e Michele Zagaria sono ricercati da oltre dieci anni e sono inseriti nell'elenco dei più pericolosi d'Italia. Ma stiamo già facendo uno sforzo senza precedenti che ha provocato nell'ultimo anno la cattura di Casalesi di primissimo livello come Francesco Schiavone, cugino del celebre Sandokan, Giuseppe Russo o il reggente del clan Sebastiano Panaro. E dimostreremo che non ci sarà nessun calo di attenzione sui Casalesi dopo che il pm Cantone avrà lasciato l'ufficio per un nuovo incarico: l'unità di lavoro casertana della Dda, oltre a me che la coordino, sarà sempre dotata di autentici carri armati, giovani o meno giovani, che assicureranno continuità e incisività alle indagini, sia sul versante militare che su quello degli affari dei Casalesi».
Bastano queste ultime frasi a testimoniare quanto l'aria sia pesante. Per spiegarlo Roberti nell'intervista a "L'espresso" ricorre ai suoi ricordi personali, raccolti direttamente in un ventennio vissuto in prima linea. Perché è dalla fine degli anni Ottanta che i casalesi hanno costruito il loro potere di sangue e denaro, contando sempre sul silenzio. «Hanno sempre avuto tendenze egemoniche. Tutti i media guardavano a Napoli, invece il potere era nel Casertano. Carmine Alfieri, il capo indiscusso della camorra tra il 1984 e il 1992, si riteneva un subordinato di Antonio Bardellino, il fondatore dei Casalesi. Dopo il pentimento, Alfieri mi raccontò: "Io a Bardellino non potevo dare consigli. Era un grande campano, davanti a lui mi toglievo tanto di capello"». Ma la vera forza dei signori della provincia più criminale d'Italia, arrivata a segnare il record mondiale di omicidi, è il fiuto per gli affari: «Sono stati i primi a uscire dal settore edile e dagli appalti per inserirsi nel ciclo dei rifiuti, nella produzione di beni di largo consumo, nelle aziende agro-alimentare, nei giochi e nelle scommesse legali, nei consorzi di bonifica. Non dimenticherò mai come nel dicembre 1992 scoprii il nuovo business dei rifiuti. Interrogavo Nunzio Perrella, un trafficante del Rione Traiano che era passato dalla droga alla munnezza. Da Thiene nel Vicentino raccoglieva le scorie tossiche delle fabbriche di vernice e li sversava in Campania. E disse che a comandare erano i Casalesi». Adesso la capacità dei Casalesi ? prosegue Roberti nell'intervista a "L'espresso" che sarà in edicola domani - è andata ancora oltre: sono passati dall'economia industriale a quella finanziaria. «Sono così ricchi che agiscono investendo capitali nelle imprese legali, senza pretendere il controllo della gestione. Hanno inventato le società a p.c.m. ossia a partecipazione di capitale mafioso, che sono ormai parte rilevante dell'economia campana e nazionale. Ma trovano mercato anche all'estero. Perchè la loro strategia è vincente: i boss guadagnano facendo risparmiare le imprese. Sono più morbidi nelle banche: chiedono interessi inferiori, non fanno fretta per recuperare l'investimento. Hanno una ricchezza talmente vasta che li esonera dalle intimidazioni e dallo strozzinaggio. Il processo Zagaria sulle infiltrazioni nelle ditte di Parma e della pianura padana dimostra come gli imprenditori del Nord fossero felici di avere i capitali della camorra».
Roberto SavianoPer questo, sostiene Roberti, i Casalesi hanno dato vita a una metamorfosi micidiale: un nuovo modo di essere mafia. «Bisogna aggiornare il concetto di metodo mafioso alla luce della loro trasformazione. Non solo il vincolo di omertà e la forza di intimidazione, ma anche la forza del denaro. E quella delle relazioni imprenditoriali e istituzionali». Perché tutti i grandi gruppi delle costruzioni sono venuti a patti con i Casalesi. E il loro potere non potrebbe esistere senza il sostegno della politica. Un fronte meno esplorato, perché non ci saranno mai baci tra ministri e boss casertani. Non servono più relazioni dirette e vecchie testimonianze di pubblica stima. No, anche in questo i Casalesi sono l'evoluzione della specie. «I rapporti con le istituzioni sono dominati dal mimetismo. Sono rapporti di reciproca funzionalità, un concetto che è stato fissato da sentenze ormai in giudicato. In pratica l'accordo tra padrini e leader politici nazionali avviene mediante gli esponenti locali del partito nel territorio controllato dai boss». E qui Roberti nell'intervista a "L'espresso" che sarà in edicola domani cita le motivazioni di un processo che ha fatto epoca, quello contro Antonio Gava, ex ministro degli Interni, protagonista della politica nazionale e leader della Dc in Campania che era stato accusato di associazione mafiosa proprio con Carmine Alfieri e Antonio Bardellino, il fondatore dei Casalesi. «Dalla sentenza che ha assolto Gava con l'articolo 530 secondo comma, ossia il comma che ha sostituito la vecchia insufficienza di prove, risulta provato con certezza che Gava era consapevole dei rapporti di reciprocità funzionale esistenti tra i politici locali della sua corrente e l'organizzazione camorristica, nonché della contaminazione tra la criminalità organizzata e le istituzioni locali del territorio campano».A gestire lo scambio pensavano quindi altre figure, come il plenipotenziario di Gava, Francesco Patriarca, condannato con sentenza definitiva e arrestato a Parigi nelle scorse settimane, o Antonio D'Auria «segretario di Gava che andava a braccetto con camorristi ergastolani a cui aveva fatto da padrino di cresima» Insomma: la politica usa dei diaframmi per non sporcarsi le mani a livello nazionale. Un modo che rende più sicuri gli uomini di governo e semplifica anche le cose ai boss: più basso il livello, più semplice la trattativa. E se si passa dalla Campania di Gava ai Casalesi di oggi, che puntano sugli esponenti regionali dell'Udeur e dei Ds, si scopre che il quadro non è meno inquietante. Ma Roberti non entra nel merito delle istruttoria ancora aperte. Ribadisce la pericolosità del «rapporto sinallagmatico tra camorra, imprese e politica», che fa prosperare tutti: «I politici ottenevano sostegno elettorale dai clan, tangenti dagli impreditori e creavano consenso sociale con gli appalti. L'impresa conquistava l'appalto e la tranquillità nei cantieri garantita dai boss. La camorra invece portava a casa subappalti, mazzette e il rapporto con i politici per raggiungere protezioni nelle forze dell'ordine o informazioni sulle inchieste. Il tutto poi cementato dalle fatture false, che offrono occasione di riciclaggio e permettono di mettere insieme i fondi per pagare politici e boss».Eccolo il segreto dei Casalesi: l'evoluzione del modello mafioso. Un triangolo d'oro, che funziona senza sparare né minacciare. A patto di costruire una cortina di silenzio. Una cortina doppiamente necessaria mentre si celebrano i processi, condotti e istruiti dal pm Raffaele Cantone, che vedono alla sbarra capi e gregari, cassieri e killer. Ma arriva "Gomorra" e la macchina perfetta dei Casalesi si inceppa: in un anno il libro di Saviano mette sotto i riflettori di mezza Europa famiglie fino ad allora ignorate.«C'è stata un'esplosione di attenzioni proprio nel momento in cui i clan tra processo e affari volevano il silenzio. Ma l'evoluzione in senso mafioso, che ha trasformato la camorra casalese in una parte funzionalmente rilevante dell'economia non solo campana, ma nazionale, con proiezioni forti anche all'estero, ha determinato l'esigenza di tenere bassa l'attenzione su questi interessi economici. E sta creando una riorganizzazione interna, con rischi di tensioni. Perché questa attivazione dei media che ha seguito il libro di Saviano ha provocato la sprovincializzazione del fenomeno camorra e l'effetto, temutissimo perché devastante sugli affari del clan, della caduta di ogni alibi di non conoscenza. Nessuno ormai, quando gli si presenta un imprenditore casalese può dire di non sapere, di non sospettare...».
Una discarica a Caivano,in prvincia di NapoliQuesta nuova sfida sfugge alle categorie con cui i boss cresciuti in campagna interpretano il mondo. Crea un corto circuito nel loro sistema di potere: temono di perdere la faccia e con ciò vedere cadere il rispetto che sostiene il loro dominio sul territorio casertano. Ma sanno che usare i Kalashnikov provocherebbe la mobilitazione dello Stato e farebbe crollare i loro investimenti. «La tensione interna ai clan nasce proprio dalla necessità di tenere bassa l'attenzione sugli affari senza però perdere il controllo militare sugli affiliati. Nel passato recente ci sono stati altri segnali di tensione, che hanno riguardato persino i boss latitanti entrati in contrasto su scelte strategiche che comprendevano anche l'attentato contro un magistrato». Roberti non fa nomi: ma anche allora nel mirino c'era il pm Cantone. Oggi cosa accadrà? Il procuratore aggiunto di Napoli non vuole stare a guardare. E per questo nell'intervista a "L'espresso" che sarà in edicola domani invoca «i migliori investigatori, rinforzi qualitativi e quantitativi degli organici delle forze di polizia, uno sforzo eccezionale per la cattura dei latitanti storici». Perché finora dei Casalesi si è soprattutto parlato, senza che ci fosse una mobilitazione dello Stato per azzerare il loro impero: i padrini hanno affrontato i problemi giudiziari e quelli giornalistici senza che nel loro feudo la loro tranquillità venisse intaccata.«I Casalesi finora hanno mantenuto una pax mafiosa, praticamente senza fatti di sangue. Sanno che l'attenzione per la camorra in genere nasce solo quando si spara. Per cui si fa ricorso a mezzi emergenziali per eludere l'obbligo politico e istituzionale di fronteggiarla su piano ordinario». E Roberti poi pronuncia parole amare per un napoletano che ama la sua terra: «Qui non c'è nessuna emergenza. La camorra è parte integrante della società napoletana e casertana, ne costituisce una delle facce. Bisogna prendere atto che questa realtà è parte di noi. Solo così saranno possibili gli interventi strategici per combatterla».
(09 agosto 2007)

da: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Casalesi-operazione-Gomorra/1714717

domenica 12 agosto 2007

Nuovi partiti o nuova politica?

Il partito che non c'è

LUCA RICOLFI

Vogliono rifare la Dc in piccolo. L’Udc, l’Udeur e altre schegge del mondo cattolico da tempo accarezzano l’idea di ricostituire un nuovo partito di centro - la «cosa bianca» - non pregiudizialmente schierato con la destra o la sinistra, ma capace di condizionarle entrambe con almeno il 10% dei voti. Ridotto all’osso il ragionamento è questo. Quindici anni di bipolarismo hanno certificato che le due coalizioni sono troppo eterogenee e troppo ricattabili dai partiti estremi per poter governare. Chi è al potere non riesce ad attuare il suo programma, e chi è all’opposizione rifiuta in blocco quel poco che chi è al governo riesce a fare. Così non si può andare avanti, ma per fortuna una soluzione c’è: costruiamo un partito moderato di centro, che consenta ai partiti non estremisti di entrambi gli schieramenti, e segnatamente a Margherita, Ds e Forza Italia, di liberarsi della zavorra dei partiti estremisti. Per fare questo basta unire le forze e cambiare il sistema elettorale, eliminando il premio di maggioranza, ad esempio attraverso l’adozione di un sistema elettorale come quello tedesco. Una volta soppresso il premio di maggioranza (che di norma rende autosufficiente la coalizione che ha vinto le elezioni), chi vorrà governare dovrà cercarsi degli alleati, e preferirà senz’altro imbarcare i ragionevoli Casini & Mastella piuttosto che tenersi i bizzosi Diliberto & Calderoli. Così, se Dio vuole, l’Italia avrà finalmente un governo degno di questo nome: fine della seconda Repubblica, e amen per gli ingenui che hanno creduto in questo «bipolarismo sgangherato». Questo genere di ragionamento non è completamente campato per aria. Il suo punto forte, a mio parere, sta nel fatto che - almeno nel decennio 1998-2007, ossia dalla caduta del primo governo Prodi a oggi - il cammino delle riforme è stato lentissimo e qualche volta anche retrogrado. In barba alle promesse di stabilità e alternanza, dall’estate del ’98 a oggi l’Italia ha avuto ben sei governi in 9 anni, che spesso hanno stravolto, disfatto o bloccato quello che i precedenti governi avevano tentato di fare. Il risultato netto di questo continuo fare e disfare, riformare e controriformare, non è ovviamente negativo su tutti i fronti, ma certo è molto inferiore anche alle più scettiche previsioni, e comunque è drammaticamente al di sotto del minimo che sarebbe stato necessario per ammodernare l’Italia, rendendola un po’ più simile ai principali Paesi dell’Eurozona. Insomma, quel che convince dei ragionamenti «centristi» è che, se lo scenario che essi ipotizzano - nuova Dc più sistema tedesco - dovesse andare in porto, difficilmente l’Italia potrebbe essere governata peggio che in questi anni. Nonostante le sue buone ragioni, il ragionamento centrista ha tuttavia - almeno ai miei occhi - un fondamentale punto debole. Tutte le ipotesi di «rifondazione democristiana» partono da un postulato tutto da dimostrare e a mio parere sostanzialmente falso, almeno in Italia: il postulato secondo cui più si è moderati e più si è riformisti, meno si è moderati e più si è ostili alle riforme. Se per riforme non intendiamo, semplicemente, senso delle istituzioni e rispetto dell’avversario, ma il coraggio di fare scelte difficili, talora impopolari, in materia di spesa pubblica, mercato del lavoro, grandi opere, federalismo fiscale, liberalizzazioni, pari opportunità, legalità, meritocrazia - insomma tutto quel che serve per rendere il nostro Paese più moderno e più giusto - non possiamo non vedere che questa attitudine politica nulla ha a che fare con l’essere di destra o di sinistra, ma nemmeno con l’essere centristi o estremisti, moderati o radicali. Il nemico numero uno delle riforme scongelatrici del sistema non è il radicalismo in quanto tale ma - semmai - il «partito della spesa» che teme il mercato, detesta il merito e crede che il compito centrale dell’azione politica non sia di far funzionare le istituzioni, eliminare gli sprechi, lasciare l’ossigeno ai produttori di ricchezza ma, tutto al contrario, sia quello di far affluire «risorse» ai propri protetti. Da questo fondamentale punto di vista non c’è grande differenza fra gli estremisti di An o di Rifondazione comunista e i moderati dell’Udc o dell’Udeur. Basta guardare che cosa succede quando un’azienda pubblica non sta più sul mercato (Alitalia), o quando gli statali pretendono più soldi dei dipendenti privati, o quando i forestali della Calabria minacciano disordini di piazza se non verrà loro conservato il posto, o quando i territori (perlopiù del Mezzogiorno) in cui l’Udc e l’Udeur sono più insediate reclamano «risorse». Certo fa piacere sentire, dopo un quinquennio di silenzio, che un partito come l’Udc sia improvvisamente diventato un grande sponsor delle liberalizzazioni. Ma come dimenticare che - quando era al governo - erano ben altre le priorità? Ricordo un’inchiesta di Franco Bechis che, più o meno a due terzi della legislatura scorsa, aveva calcolato che - se accettate - le proposte di legge dell’Udc sarebbero costate alle casse pubbliche la bellezza di 58 miliardi di euro. E come non ricordare che alcune idee imprescindibili di qualsiasi politica di rilancio dell’Italia, dal federalismo fiscale alle grandi liberalizzazioni (la cosiddetta agenda Giavazzi) sono difese innanzitutto da partiti tutt’altro che moderati, come la Lega e i Radicali? Per farla breve, io temo che da questo fondamentale punto di vista - l’attitudine a sperperare denaro pubblico e la connessa disattenzione per i ceti produttivi - non faccia nessuna vera differenza essere governati da post-comunisti, ex fascisti, o neo-democristiani. Se di qualcosa di nuovo ha bisogno l’Italia, non è di una nuova Dc, ma nemmeno di operazioni (per ora) puramente cosmetiche come il nascente Partito democratico (Ds più Margherita) o la probabile «risposta» del nascituro Partito della libertà (Forza Italia più An). Il primo guaio dell’Italia non è il potere di veto dei partiti estremisti, ma è la mancanza di chiarezza e di coraggio dei grandi partiti che hanno la responsabilità di guidare il Paese. Se i governi di questi anni sono stati deboli e incapaci di fare quel che andava fatto non è solo per colpa delle cosiddette «ali» dei due schieramenti, ossia dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, ma perché i partiti-guida hanno abdicato al loro compito e non hanno voluto prendersi i propri rischi. In questi lunghi anni il riformismo è stato la parola d’ordine di tutti i governi, ma a credere in una vera svolta, in una rinascita anti-assistenziale dell’Italia, sono stati in pochi, in entrambi gli schieramenti. Sia a destra che a sinistra il partito della spesa è più forte del partito del mercato, sia a destra che a sinistra il merito e la responsabilità individuale non contano, sia a destra che a sinistra l’imperativo categorico non è fare le riforme ma impedire agli altri di governare, o di tornare al governo. Ma questi, ahimè, non sono problemi che si risolvono con un nuovo sistema elettorale, né con un nuovo partito: ci vuole un’altra mentalità politica, e probabilmente una nuova classe dirigente. E se proprio si vuole affrontarli con un nuovo partito, è curioso che si pensi di farlo con un partito moderato, clientelare, familista, erede della tradizione cattolica. La Dc, con il valido aiuto dei suoi alleati laici e moderati e la parziale connivenza dell’opposizione comunista, ha portato al collasso i conti pubblici dell’Italia, lasciando alla vituperata seconda Repubblica l’immane compito di riparare i guai della prima. Difficile pensare che siano proprio gli eredi di quel partito a riportarci fuori da quei guai. Come molti italiani, neanch’io credo che il nostro Paese abbia bisogno di un ennesimo partito. Ma se c’è un partito che manca, nel firmamento della politica italiana, non è il partito dei moderati ma, semmai, il partito della responsabilità e del merito. Un partito che non c’è, che probabilmente non ci sarà mai, ma che - se ci fosse - sarebbe radicale. Molto radicale.
da: www.lastampa.it

sabato 11 agosto 2007

Fondamentalismo religioso e tolleranza liberale

Slavoj Zizek: Il credo della passione decaffeinata

il manifesto, 28 febbraio 2004 -
Le credenziali di coloro che, ancor prima della sua uscita, criticano violentemente il nuovo film di Mel Gibson sulle ultime dodici ore della vita di Cristo appaiono impeccabili: non è forse pienamente giustificata la loro preoccupazione che il film, realizzato da un fanatico tradizionalista cattolico con impeti occasionali di antisemitismo, possa innescare sentimenti antisemiti? Più in generale, La passione di Cristo non è una sorta di manifesto dei nostri fondamentalisti e anti-secolaristi (occidentali, cristiani)? Rigettarlo non è dunque dovere di ogni secolarista occidentale? Un attacco così privo di ambiguità non è sine qua non, se vogliamo dimostrare di non essere segretamente dei razzisti che attaccano solo il fondamentalismo di altre culture (islamiche)? La reazione del papa al film è nota: profondamente commosso, ha mormorato: «È proprio come avvenne in realtà!», ma questa affermazione è stata subito ritrattata dai portavoce ufficiali del Vaticano. Così la sua reazione spontanea è stata velocemente sostituita dalla posizione neutra «ufficiale», emendata in modo da non ferire nessuno. Questo spostamento è la migliore esemplificazione di cosa c'è che non va nella tolleranza liberale, con la sua paura politicamente corretta che possa essere ferita la sensibilità religiosa di chicchessia: anche se nella Bibbia si dice che una folla di ebrei chiese la morte di Cristo, non si dovrebbe rappresentare direttamente questa scena, ma sdrammatizzarla e contestualizzarla per chiarire che gli ebrei non possono essere ritenuti responsabili collettivamente per la crocifissione. In tal modo l'aggressiva passione religiosa è semplicemente repressa: essa resta lì, cova sotto la superficie e, non trovando espressione, diventa sempre più forte. È questo lo scenario di fondo che dobbiamo tenere presente nel considerare La rabbia e l'orgoglio di Oriana Fallaci, questa appassionata difesa dell'Occidente contro la minaccia musulmana, questa aperta affermazione della superiorità dell'Occidente, questa denigrazione dell'Islam non in quanto cultura diversa, ma in quanto barbarie (per cui non saremmo nemmeno in presenza di uno scontro tra civiltà, bensì tra la nostra civiltà e la barbarie musulmana). Il libro è, in senso stretto, l'opposto della tolleranza politicamente corretta: la sua appassionata vitalità è la verità della tolleranza esanime del politicamente corretto. Dentro questo orizzonte, l'unica risposta appassionata alla passione fondamentalista è un secolarismo aggressivo del tipo esibito recentemente dal governo francese, che ha proibito di indossare nelle scuole tutti i simboli e gli indumenti religiosi più evidenti (non solo i veli per le musulmane, ma anche i copricapo ebraici e le croci cristiane troppo vistose). Non è difficile prevedere l'effetto finale di questa disposizione: esclusi dallo spazio pubblico, i musulmani saranno spinti direttamente a costituirsi in comunità fondamentaliste non integrate... Lacan aveva ragione quando sottolineava il collegamento tra la regola della fraternité post-rivoluzionaria e la logica della segregazione. Forse il divieto di abbracciare un credo con totale passione spiega perché, oggi, la cultura stia emergendo come la categoria centrale della vita e del mondo. La religione è permessa non come un modo di vivere sostanziale, ma come una particolare «cultura» o, piuttosto, un fenomeno riguardante gli stili di vita: ciò che la legittima non è la sua pretesa di verità immanente, ma il modo in cui essa ci permette di esprimere i nostri sentimenti e atteggiamenti più riposti. Noi non crediamo più veramente; semplicemente, seguiamo (alcuni) rituali e usi religiosi per rispetto allo «stile di vita» della comunità a cui apparteniamo (pensiamo al proverbiale ebreo non credente che segue le regole kosher «per rispetto della tradizione»). Cos'è uno stile di vita culturale se non il fatto che, anche se non crediamo in Babbo Natale, a dicembre c'è un albero di Natale in ogni casa e anche nei luoghi pubblici? Forse, allora, «cultura» è il nome che diamo a tutte quelle cose che pratichiamo senza crederci veramente, senza «prenderle sul serio». Non è questo anche il motivo per cui la scienza - fin troppo reale - non rientra in questa nozione di cultura? E non è questo anche il motivo per cui liquidiamo i credenti fondamentalisti - che osano prendere sul serio il loro credo - come «barbari», come anti-culturali, come una minaccia alla cultura? Oggi, in ultima analisi, percepiamo come minaccia alla cultura coloro che vivono la loro cultura immediatamente, che non si distanziano da essa. Ricordate l'indignazione quando, tre anni fa, le forze talebane in Afghanistan fecero esplodere le antiche statue dei Buddha a Bamiyan? Sebbene nessuno di noi, occidentali illuminati, creda nella divinità del Buddha, ci ha indignato che i musulmani talebani non dimostrassero il rispetto dovuto all'«eredità culturale» del loro paese e dell'umanità intera. Invece di credere attraverso l'altro come tutte le persone di cultura, essi credevano veramente nella loro religione e dunque non erano molto sensibili al valore culturale dei monumenti di altre religioni. Per loro, le statue del Buddha erano solo dei falsi idoli, non «tesori della cultura». (E, incidentalmente, questa indignazione non è la stessa dell'antisemita illuminato di oggi che, sebbene non creda nella divinità di Cristo, nondimeno rimprovera agli ebrei di avere ucciso nostro Signore Gesù? O la stessa del tipico ebreo secolarizzato che, pur non credendo in Geova e Mosè come suo profeta, nondimeno pensa che gli ebrei abbiano un diritto divino alla terra di Israele?) Questo è il motivo per cui, oggi, una simile passione è politicamente scorretta: tutto sembra permesso, ma in realtà i divieti sono meramente spostati. Pensate all'impasse odierna sulla sessualità o sull'arte: esiste niente di più noioso, opportunistico e sterile che soccombere all'ingiunzione del super-io di inventare incessantemente nuove trasgressioni e provocazioni artistiche (l'attore che si masturba sul palcoscenico o si provoca masochisticamente dei tagli, lo scultore che espone cadaveri di animali in putrefazione o escrementi umani), o all'ingiunzione analoga di misurarsi in forme di sessualità sempre più «audaci»? In alcuni circoli «radicali» negli Stati uniti, recentemente è stata avanzata la proposta di «ripensare» i diritti dei necrofili (coloro che desiderano avere rapporti sessuali con corpi morti). Perché dovrebbero esserne privati? Così è stata formulata l'idea che, così come si firma per autorizzare l'espianto di organi a fini medici in caso di morte improvvisa, si possa anche firmare per consentire che il proprio corpo sia messo a disposizione dei necrofili. Tale posizione realizza la vecchia intuizione di Kierkegaard su come l'unico vicino buono sia il vicino morto: un vicino morto - un cadavere - è il partner sessuale ideale di un soggetto «tollerante» che cerca di evitare qualunque molestia. Per definizione, un cadavere non può essere molestato. Oggi sul mercato troviamo tutta una serie di prodotti che sono stati privati delle loro proprietà dannose: caffè senza caffeina, panna senza grassi, birra senza alcool... E l'elenco continua. Che dire del sesso virtuale come sesso senza sesso, della dottrina di Colin Powell della guerra senza vittime (dalla nostra parte, naturalmente) come guerra senza guerra, della ridefinizione contemporanea della politica in quanto arte del governo tecnico come politica senza politica, fino al credo decaffeinato - un credo che non ferisce nessuno e non impegna pienamente nemmeno noi stessi? Ecco due temi che determinano l'atteggiamento tollerante e liberale di oggi nei confronti degli Altri: il rispetto dell'alterità, l'apertura verso di essa, e la paura ossessiva della molestia. In breve, l'Altro va bene nella misura in cui la sua presenza non è intrusiva, nella misura in cui l'Altro non è veramente Altro. Ciò che sta emergendo sempre di più come il diritto umano fondamentale nella società tardocapitalistica è il diritto di non essere molestati, cioè di poter restare a distanza di sicurezza dagli altri. Una struttura simile è chiaramente presente nel modo in cui ci relazioniamo con l'arricchimento capitalistico: va bene purché sia controbilanciato da attività caritatevoli. Prima si accumulano miliardi, poi li si restituisce (parzialmente) ai bisognosi. E lo stesso è per la guerra, per la logica emergente del militarismo umanitario o pacifista: la guerra va bene in quanto serve veramente a portare pace, democrazia, o a creare le condizioni per distribuire gli aiuti umanitari. Ciò significa che, contro la falsa tolleranza del multiculturalismo liberale, dobbiamo tornare al fondamentalismo religioso? La stessa critica al film di Gibson rende evidente l'impossibilità di tale soluzione. Inizialmente Gibson voleva girare il film in latino e aramaico e proiettarlo senza sottotitoli; sotto la pressione dei distributori, ha poi deciso di prevedere i sottotitoli in inglese (o in altre lingue). Questo compromesso da parte sua non è però una semplice concessione alle pressioni commerciali; rispettare il programma originale avrebbe reso piuttosto evidente la natura auto-confutante del progetto di Gibson. Vale a dire, immaginiamo il film senza sottotitoli proiettato nel grande centro commerciale di un sobborgo americano: la voluta fedeltà all'originale si sarebbe trasformata nel suo opposto, in uno spettacolo esotico e incomprensibile. Ma c'è una terza posizione, oltre il fondamentalismo religioso e la tolleranza liberale. Torniamo alla distinzione «politicamente corretta» tra il fondamentalismo islamico e l'Islam: Bush e Blair (e anche Sharon) non dimenticano mai di elogiare l'Islam come una grande religione di amore e tolleranza che nulla ha a che fare con gli orribili attentati terroristici. Così come questa distinzione tra Islam buono e terrorismo islamico cattivo è un falso, bisognerebbe problematizzare anche la tipica distinzione radicale-liberale tra ebrei e stato di Israele o sionismo, cioè il tentativo di allargare lo spazio in cui gli ebrei e i cittadini ebrei di Israele potranno criticare la politica dello stato di Israele e l'ideologia sionista non solo senza essere accusati di antisemitismo ma anzi basando la loro critica sul loro appassionato attaccamento all'ebraismo, su ciò che essi ritengono vada salvato dell'eredità ebraica. Ma questo è sufficiente? Marx ha detto a proposito del petit-bourgeois che egli vede in ogni oggetto due aspetti, il buono e il cattivo, e cerca di tenere il buono e combattere il cattivo. Bisognerebbe evitare lo stesso errore nel trattare il giudaismo: il «buon» giudaismo levinasiano della giustizia, del rispetto e della responsabilità nei confronti dell'altro ecc., contro la «cattiva» tradizione di Geova, i suoi accessi vendicativi e la violenza genocida contro il popolo vicino. Bisognerebbe avere il coraggio di trasferire il divario, la tensione, nel cuore stesso del giudaismo: non è più questione di difendere la purezza della tradizione ebraica della giustizia e dell'amore per il vicino contro l'asserzione aggressiva sionista dello stato-nazione. Allo stesso modo, invece di celebrare la grandezza del vero Islam contro il suo uso sbagliato da parte dei terroristi fondamentalisti o deplorare il fatto che, di tutte le grandi religioni, l'Islam sia quella che più resiste alla modernizzazione, bisognerebbe piuttosto vedere questa resistenza come una chance: essa non porta necessariamente al fascismo islamico, ma può anche articolarsi in un progetto socialista. Precisamente perché ospita le peggiori potenzialità di una risposta fascista alla nostra situazione presente, l'Islam può anche rivelarsi come il luogo delle potenzialità migliori. Invece di cercare di redimere il nucleo puramente etico di una religione contro le sue strumentalizzazioni politiche, bisognerebbe criticare implacabilmente questo stesso nucleo - in tutte le religioni. Oggi che le religioni stesse (dalla spiritualità New Age al facile edonismo spiritualista del Dalai Lama) sono più che pronte a servire la ricerca postmoderna del piacere, paradossalmente, solo un materialismo coerente è in grado di sostenere una posizione etica militante veramente ascetica.
Traduzione Marina Impallomeni

Il peso della chiesa cattolica nel nostro paese

Ahi Costantin di quanto mal fu madre

di EUGENIO SCALFARI

Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c'è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere. Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l'arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l'Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell'America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità. Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L'"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale. Tutto ciò va evidentemente al di là d'una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento. La questione cattolica è dunque quella che spiega più d'ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell'opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza. "Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...". La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione. Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall'Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto. Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l'emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano. La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall'Austria e da alcuni paesi cattolici dell'America meridionale. Le capacità finanziarie dell'episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l'esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza. A fronte di quest'offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d'intransigenza che sfiorano l'anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l'antica diffidenza di togliattiana memoria. Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un'avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell'ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell'elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza. * * * Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche. Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori". L'obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica. Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l'hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un'altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono. * * * Un elemento decisivo della questione cattolica e dell'anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l'articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un'organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d'un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c'è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d'un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali. Questa doppia elica non esiste in nessun'altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell'impossibilità di realizzare l'unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi. Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all'interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell'episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando. Negli scorsi giorni l'atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante. Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l'otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all'episcopato italiano quell'otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza. * * * Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare. Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata. Quanto al grosso dell'opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari. Perciò sperare che la democrazia possa diventare l'"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.
(5 agosto 2007)

Restaurazione antisindacale

In una intervista pubblicata da L'Unità il 6 agosto 2007, il sociologo Luciano Gallino, componente il Comitato Promotore di Sd dice: bisogna difenderli, hanno un ruolo vitale. Ma in Italia c’è chi sogna la Thatcher

Ora vogliono ammazzare i sindacati

di Roberto Rossi
Residuo premoderno, istituzione demodé, struttura in ritardo irrimediabile sui tempi. Adesso anche casta. Il sindacato in Italia è sottoposto a un pesante attacco come mai prima d’ora. E che ricorda quello che subì, negli anni 80, quello inglese.«È lo stesso piano inclinato» spiega il sociologo Luciano Gallino. Per ora cambia solo la pendenza.
Professore, tra le affermazioni più in voga oggi c’è anche quella di considerare il ruolo del sindacato come troppo invadente nella vita politica del Paese. Concorda?«È un’affermazione fuori da ogni realtà. Se il sindacato avesse tale potere non si spiegherebbe come i salari dei lavoratori dipendenti in Italia siano fermi da oltre dieci anni, ormai quasi 15, mentre sono cresciuti in termini reali in Francia, Germania e altrove».
Qual è la forza, la presa del sindacato nella società?«Il vantaggio del sindacato è che ha una presa diretta con il mondo che lo circonda. Molte persone, forse anche i redattori dell’Espresso, pensano che il sindacato sia fatto da 30-50 signori che stanno seduti in Corso Italia o da altre parti e che da lì sragionino sulle sorti dei lavoratori. Il sindacato è fatto da decine di migliaia di persone in contatto con le forze produttive del Paese, con le crisi aziendali, le delocalizzazioni, giorno per giorno. Hanno un contatto con la realtà superiore ai partiti che una volta avevano sezioni, club, scuole dove si studiava la società, ma che oggi sono spariti».
Perché secondo lei il settimanale l’Espresso, voce rappresentativa di una parte della sinistra, ha dipinto i sindacati come casta proprio ora? In fondo sono gli stessi di dieci anni fa. C’è un motivo contingente?«Non lo so. Ma se ci fosse mi pare che la cosa si profili un po’ preoccupante. Quello che il sindacato ha fatto fino a questo punto è resistere, non molto tutto sommato, sulla questione delle pensioni. E ha finito col firmare un protollo dove le pensioni vengono riformate con differenze minime rispetto al piano del centrodestra. E nel quale si sono presi impegni nel mercato del lavoro che potrebbero essere stati scritti benissimo dal governo Berlusconi. Io mi sono guardato il protocollo Damiano. Il fatto di averlo sottoscritto è per i sindacati un segno di debolezza. Altro che casta! Un documento del genere 10 anni fa non sarebbe stato proponibile».
Anche in Gran Bretagna, negli anni ‘80, il ruolo del sindacato fu pesantemente messo in discussione e poi ridimensionato. C’è un parallelismo?«Purtroppo il piano inclinato è il medesimo. Lì i sindacati sono stati eliminati dalla scena politica ed economica licenziando decine di migliaia di lavoratori. In Italia non siamo allo stesso livello, per fortuna».
Il piano inclinato è l’ideologia liberista?«Direi proprio di sì, ma non solo. Aggiungerei, come ricorda Warren Buffett, il secondo uomo più ricco al mondo, che le forze delle grandi imprese, delle corporation, i loro modelli, hanno vinto. Hanno perseguito un tale successo che contrastarlo appare sempre più difficile».
Ha vinto il concetto di modernismo?«Sì, ma in una concezione molto povera, molto deforme del modernismo. Perché, il modernismo o, meglio, la modernità, mirava alla sintesi, la più alta possibile, tra esigenze individuali e interessi collettivi. Il concetto moderno così come si è è malamente affermato ha sostenuto e sta sostenendo solo il primo aspetto. E cioè un liberismo sfrenato che permette notevoli sviluppi della ricchezza privata a scapito di quella pubblica».
Questo progetto di modernismo di basso profilo ha fatto breccia anche a sinistra?«Ahimè sì. Naturalmente bisogna fare i conti con la storia. Con il fatto che il capitalismo non abbia più antagonisti reali e credibili».
Attaccare il sindacato torna ciclicamente di moda. Era successo con Berlusconi, torna in auge oggi. Perché?«Perché la vittoria di cui parlavamo prima è forse più ampia di quanto non ci potesse aspettare. E, per la verità, non ha trovato grosse resistenze. Sono le capacità critiche che sono venute meno. La capacità di fare fronte ai dati e ragionarci sopra. Gran parte del discorso politico attuale è ideologico, rispetto al quale i fatti e le cifre non esistono più. Mi sembra molto caratteristico quanto è avvenuto sul fronte delle pensioni ma anche sul fronte del mercato del lavoro».
Il segretario della Cgil Epifani ha parlato più volte di un ritorno di un “diciannovismo”, cioè il tentativo di delegittimazione delle istituzioni tra queste anche i sindacati?«Per ora il termine mi sembra forte anche se credo che ci sia qualcosa di vero. Perché così come si attacca il sindacato si attacca anche la politica in quanto tale o le stesse istituzioni della democrazia. Spero che fra quattro o cinque anni non si riveli un termine pienamente azzeccato».
Rispetto a dieci anni fa, diciamo quando il protocollo Damiano non sarebbe stato preso in considerazione, come è cambiato il sindacato?«Potremmo dire che ha qualche acciacco in più. Uno dei problemi principali è una difficoltà di rappresentanza. La frammentazione dell’attività produttiva ha anche frammentato e distribuito sul territorio le forze di lavoro. Inoltre le tecnologie e i nuovi modelli di organizzazione del lavoro hanno moltiplicato e differenziato interessi materiali e ideali dei lavoratori. Però il loro ruolo è ancora vitale. Basta dare un’occhiata a quello che succede nel mondo e uno scopre che dove i sindacati non ci sono di fatto i lavoratori vengono pagati 70 centesimi di dollaro l’ora o fanno 60-70 ore alla settimana».

domenica 29 luglio 2007

Quattro anni di guerra in Iraq

Il giorno in cui Bush perderà il sonno

di Tahar Ben Jelloun

Allora sapremo che il presidente americano è tornato a essere un uomo. Ma le conseguenze della guerra in Iraq rimarranno a lungo

I resti di un'autobomba a BaghdadQuattro anni dopo l'ingresso delle truppe americane a Baghdad e la caduta di Saddam, l'Iraq continua a immolare dalle 50 alle 100 persone al giorno. Nel momento in cui scrivo, sono certo che alcuni suoi cittadini stanno per morire in seguito a un'esplosione in un mercato o lungo una strada affollata. E sono altrettanto sicuro che l'uomo in abito grigio che sta uscendo da casa incrocerà un proiettile entro la fine della giornata. Mentre leggete questo articolo, sappiate che fra il momento in cui l'ho scritto e il giorno in cui è stato pubblicato, sono state uccise almeno 300 persone. E domani ci saranno altre vittime, specialmente donne e bambini.Quanto ai feriti, avete notato che nessuno ne parla più sui giornali? E che non fanno notizia neppure se perdono in seguito la vita? Perché parlarne, del resto, visto che si tratta soltanto di iracheni, di arabi, di musulmani? In compenso, tutta la stampa mondiale riporta, caso per caso, il numero di vittime americane. In questo preciso istante, martedì 10 aprile, apprendo che quattro soldati statunitensi sono stati uccisi. Sappiamo tutti che all'inizio di quest'anno si è oltrepassata la soglia dei 3 mila morti fra i loro ranghi. Ma com'è noto, ci sono morti più interessanti, importanti e simpatici degli altri. È fondamentale far conoscere che la potenza più grande del mondo ha perso 3 mila giovani in questa guerra contro un popolo che non le ha fatto niente. Né si può addurre l'attenuante che tutto questo sia servito a smantellare le organizzazioni terroriste, a dar la caccia a Bin Laden e a catturare i suoi seguaci, visto che sono morti in seguito ad attacchi di iracheni che non li volevano nel loro paese. Si tratta dunque di una situazione assurda quanto 'il deserto dei tartari', voluta da un presidente eletto con scarsi consensi, che voleva dimostrare che l'America è sempre potente.
Così, ogni giorno, ha il suo numero di vittime, con cifre che variano di poco. È matematico. Soldati, resistenti, cittadini che non partecipano a questa guerra, muoiono ogni giorno. E dopo 1.468 giorni di occupazione americana, il numero complessivo di morti supera i 100 mila. Oggi, nessuno sa come uscire da questo pantano né soprattutto come riportare la pace in questo paese. Tutte le affermazioni dell'entourage di Bush si sono rivelate menzogne ed errori. L'esportazione della democrazia non è stata come bere un bicchier d'acqua. Il terrorismo internazionale ha trovato in questo paese una base operativa e un laboratorio sperimentale insperati. Al Qaeda agisce con arroganza in Iraq, seminando morte un po' ovunque. Una guerra civile fra sunniti e sciiti è incominciata. Saddam Hussein è stato giustiziato prima che fossero terminati tutti i procedimenti giudiziari a suo carico. Il paese è stato distrutto. La sua economia versa in condizioni catastrofiche. Il bilancio di questi quattro anni è negativo sotto ogni profilo. Non c'è nessun dato confortante. Ma il popolo americano si è risvegliato, rifiutando questa guerra. Gli Stati Uniti vengono biasimati e le grandi manifestazioni sciite a Najaf, l'8 aprile scorso, hanno attribuito loro la responsabilità di tutti questi misfatti. E in quello stesso giorno, un'autobomba è esplosa a Mahmoiudiya, a sud di Baghdad, facendo 18 morti. Ed ecco che si parla della conferenza di Sharm el Sheikh in Egitto, in programma il 3 e 4 maggio prossimi. Un'altra riunione in cui si cercherà di stanare il soldato Bush dalla giungla del crimine. Si dovrà porgergli la mano, indicargli qualche via d'uscita. Come lasciare infatti l'Iraq, senza perdere la faccia? Ma al suo popolo, esposto ogni giorno alle bombe, importa ben poco di questo. Pretende soltanto, senza che nessuno lo ascolti, di vivere, in modo indipendente, senza terrorismo né guerra civile, alimentata, com'è noto, da vicini benevolenti!Il giorno in cui Bush perderà completamente il sonno, sapremo allora che è tornato a essere un uomo, ovvero una persona dotata di una coscienza. Le conseguenze negative della sua politica in Iraq continueranno, rimarranno a lungo un incubo per questo paese dove più del 60 per cento degli abitanti la rigettano. Ma la terra continuerà a girare come se il destino dell'uomo fosse scandito dalla guerra, dall'ingiustizia e dal disprezzo dei diritti umanitari più elementari.

traduzione di Mario Baccianini
(27 aprile 2007)
da: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Il-giorno-in-cui-Bush-perdera-il-sonno/1586747

domenica 22 luglio 2007

Quando la mediazione e il compromesso, se fatti a fine di bene, sono un'arte

Credo che il governo Prodi, di compromesso in compromesso,continuerà a realizzare obiettivi e ad andare avanti

Mediare per il paese e non per il potere

Che altro c'è di buono in questa intesa? L'aumento delle pensioni d'anzianitàl'avvio degli ammortizzatori sociali, il sostegno ai giovani

di EUGENIO SCALFARI
Mi sono fatto da qualche mese una nomea alla quale non sono particolarmente affezionato: quella di essere la sola persona convinta che Romano Prodi sia un buon presidente del Consiglio. In realtà dare giudizi su chi è migliore o peggiore rispetto ad un altro è un esercizio futile e logicamente scorretto perché non si possono paragonare le mele con le spigole, le zucchine con la carne d'agnello. E così non si possono dare etichette di efficienza a due governi che hanno operato in contesti politici ed economici diversi. Se inquadriamo l'attuale governo Prodi nel contesto in cui ha operato nei primi dodici mesi dal suo insediamento sono convinto che si tratti d'un buon governo, anche se assai scarso nella comunicazione dei suoi provvedimenti. La capacità di Prodi a mediare è notevole, ma c'è mediazione e mediazione. Andreotti per esempio, ai suoi tempi, fu un fuoriclasse in questo esercizio da lui usato quasi sempre per mantenersi al potere anche a costo dell'immobilismo più disperante. La mediazione di Prodi ha una diversa natura: mira a compromessi capaci di avanzare verso obiettivi di utilità generale. Andreotti - tanto per proseguire nell'esempio - governò in tutte le stagioni politiche; guidò governi appoggiati a destra, al centro, a sinistra. In alcuni casi ebbe perfino il sostegno dell'Msi; in altre fece maggioranze organiche con il Pci. Prodi al contrario ha sempre sostenuto (e confermato con i fatti) di non essere un politico disponibile in tutte le stagioni ma in una soltanto. Forse proprio per questo non piace alla maggioranza degli italiani. In più ha una testa durissima, come quasi tutti quelli che sono nati a Reggio Emilia. Io sono nato nel segno dell'Ariete, perciò lo capisco.
Guardate ai vaticini berlusconiani che si susseguono ormai da un anno. Vaticinavano che sarebbe caduto entro un mese dalla proclamazione del verdetto elettorale. Da allora spostano la data dell'apertura della crisi di due o al massimo tre settimane in continuazione. Sono passati dodici mesi e le date di scadenza della crisi sono state finora almeno una ventina. Adesso il capo dell'opposizione e tutti i suoi accoliti hanno fissato per il prossimo settembre l'appuntamento decisivo con la dissoluzione del centrosinistra. Tutto può accadere quando si naviga con la maggioranza di un voto, ma io non credo che il centrosinistra celebrerà il suo suicidio in autunno. Credo che, di compromesso in compromesso, continuerà a realizzare obiettivi e ad andare avanti. Per una ragione molto semplice: ancora per un bel pezzo non ci saranno alternative al governo Prodi. * * * Vengo alla riforma delle pensioni, una vicenda che dura da mesi e che, un giorno dopo l'altro, è stata preconizzata come irrisolvibile. Sarebbe un esercizio utile per tutti rivedere i titoli dei telegiornali e dei quotidiani da maggio in poi. Una sequenza sussultoria senza fine: "Pensioni, l'accordo è vicino" "Scontro feroce sulle pensioni" "Il governo è spaccato" "La sinistra all'attacco" "Il contrattacco per i riformisti" "Berlusconi: governo in crisi" "Resta lo scalone" "Via lo scalone senza se e senza ma". Bene. Giovedì sera alle 22 i sindacati confederali sono stati convocati a Palazzo Chigi. Alle 4 del mattino, in una delle tante pause d'un negoziato che tutti i partecipanti hanno definito durissimo, si sono appartati in una saletta del palazzo Prodi, Padoa-Schioppa, Letta e il segretario della Cgil, Epifani. "Devi dirmi sì o no. Adesso" gli ha detto il presidente del Consiglio. "Per me l'accordo va bene, ma debbo consultare il direttivo. Garantisco che la risposta sarà un sì ma formalmente la darò lunedì mattina". "Lo ripeto: mi devi dare la risposta adesso. Se è no esco di qui e annuncio le dimissioni del governo". Dopo questo siparietto il sì di Epifani è arrivato con la clausola "per presa d'atto" scritta a penna prima della firma. Il senso di quella frase l'ha dato lo stesso segretario della Cgil in un'intervista di ieri al nostro giornale. Alla domanda dell'intervistatore sull'accordo raggiunto, la risposta è stata la seguente "il testo di ieri notte contiene molte misure di grandissimo valore e anche di carattere innovativo. In modo particolare sto pensando ai giovani, al fatto che nell'aggiornamento dei coefficienti di trasformazione sarà indicato che per loro la pensione non potrà essere inferiore al 60 per cento dell'ultima retribuzione. Non solo: dopo tanti anni vengono definiti finalmente i lavori faticosi". Poche righe più in là il giornalista gli chiede: "Il governo reggerà la prova parlamentare dell'intesa?". Risposta: "Il governo ha una navigazione a vista, ma troverei paradossale che naufragasse proprio su questo. La conseguenza sarebbe la crisi di governo ma anche la sopravvivenza dello scalone e la rinuncia a tutto ciò che c'è di buono in questa intesa". Esatto. Che altro c'è di buono in questa intesa? Ricordiamolo perché di questi tempi la memoria è diventata assai corta. C'è l'aumento delle pensioni d'anzianità a 3 milioni di pensionati, l'avvio degli ammortizzatori sociali, il sostegno ai giovani contro il precariato, per un complessivo ammontare di 2.600 miliardi. Altri 5 miliardi sono stati stanziati per l'aumento graduale dell'età pensionabile al posto dello scalone di Maroni. Si parte da subito con lo scalino di 58 anni, nel 2009 l'età sale a 59 anni, nel 2011 a 60, nel 2013 a 61. Un anno in più alle stesse date per i lavoratori autonomi. Tutti questi provvedimenti saranno inseriti nella legge finanziaria per il 2008. Se il governo fosse battuto, il complesso di questi accordi - che dovranno essere approvati dai lavoratori - salterà per aria insieme al governo. Ha ragione Epifani: sarebbe un capitombolo epocale. Chi si prenderebbe questa responsabilità: Giordano? Diliberto? Cremaschi della Fiom? * * * Tito Boeri, un economista di valore, ha scritto ieri sulla "Stampa" che l'accordo sulle pensioni è un buon compromesso. Avrebbe voluto che l'età pensionabile si muovesse con maggiore celerità ma si rende conto, appunto, del "contesto" e se ne dichiara parzialmente soddisfatto. A differenza del suo collega ed amico Francesco Giavazzi che sul "Corriere della Sera", lancia invece raffiche sul governo, sui sindacati, sulla sinistra. Se la prende anche con Veltroni. Il finale arieggia a quello che il Manzoni mette in bocca a frà Cristoforo quando apostrofando don Rodrigo con l'indice puntato contro di lui e gli occhi fiammeggianti profetizza: "Verrà un giorno... ". Più misurati gli eurocrati di Bruxelles. Conosceremo meglio domani la loro opinione ma il primo impatto è stato favorevole, almeno perché una decisione è stata presa. Negativa - moderatamente - la Confindustria, anche perché non è stata ascoltata. Mi permetto di osservare in proposito che l'oggetto del negoziato riguardava i pensionati e i pensionandi. Non un contratto di categoria e neppure la politica economica in generale ma semplicemente pensionati e pensionandi. Mi permetto altresì di dire che perfino la consultazione della "base" da parte dei sindacati è un gesto apprezzabile di democrazia ma non statutariamente necessario, come lo sarebbe per un contratto di lavoro. Si spera comunque che i dirigenti confederali accompagneranno la discussione con la base esternando il loro motivato parere e spiegando bene le conseguenze di un voto negativo. La democrazia non è (non dovrebbe essere) una lotta libera senza regole. Serve a costruire e non a sfasciare. E se i partiti invadono l'agone sindacale, tempi duri si preparano per i lavoratori. Post Scriptum. Alcuni lettori si chiedono e ci chiedono perché mai la Chiesa abbia celebrato con tutti gli onori previsti dalla liturgia i funerali dell'avvocato Corso Bovio, eminente figura del Foro milanese, morto suicida, ed abbia invece negato quei funerali all'ammalato Welby che fu aiutato da un amico generoso a interrompere cure inutili che perpetuavano senza scopo alcuno una vita di intollerabili sofferenze. Una spiegazione pare che ci sia da parte della Chiesa. Dal diniego opposto contro tutti i suicidi, essa è passata col tempo ad una visione più duttile (più ipocrita) secondo la quale il suicidio deriva da un "raptus", una perdita improvvisa di coscienza. Su questa base il suicida viene "perdonato" e ammesso ai funerali religiosi che mandano in pace l'anima sua e sono di conforto per i suoi parenti. Nel caso Welby invece l'ipotesi del "raptus" non poteva essere adottata poiché si trattava di un militante che voleva contrastare l'accanimento terapeutico. Di qui il divieto di celebrare il funerale religioso nonostante fosse stato richiesto insistentemente da lui e dai suoi familiari. Che possiamo rispondere ai nostri lettori? Che la Chiesa è, oltre che un'organizzazione religiosa, anche se non soprattutto un'organizzazione di potere. È anzi un potere a tutti gli effetti e si muove come tale su un'infinità di questioni che hanno poco o nulla a che vedere con la religione dell'amore e della carità predicata dai Vangeli. Come tutte le organizzazioni di potere, anche la Chiesa usa largamente lo strumento dell'ipocrisia. Questo è tutto.
(22 luglio 2007)

da: www.repubblica.it

sabato 21 luglio 2007

La mamma dei cretini è sempre incinta...anche d'estate!

L'ANTITALIANO

Un'altra estate da cretinismo generale

di Giorgio Bocca

Il cretinismo cialtrone imperversa: su tutti i giornali ci sono fotografie di Lele Mora, un procuratore di divette televisive, e di Fabrizio Corona.

Il cretinismo in tutte le sue forme, consumistico, sanitario, sessuale, ha rotto gli argini, domina incontrastato, naviga gli oceani, sulle navi giganti delle super crociere dove i vacanzieri stanno come polli nella stia a ingozzarsi di pappe dolciastre, riempie gli schermi televisivi e i giornali. Senza tregua, senza misura.È possibile che un uomo di media cultura non sappia cosa è una 500 Fiat? Non sappia che è una delle edizioni delle utilitarie cioè delle scatole di sardina che vanno a velocità pazzesche per tener alta la media delle migliaia di morti su strada che neppure i parenti stretti piangono, di cui la pubblica sanità se ne infischia, che le cronache ignorano per abbondanza? È possibile che giornali di 'opinione', come li chiamiamo, ne parlino come la Madonna pellegrina? E va bene che 'La Stampa' di Torino è un house organ della Fiat ma è il cretinismo totale che dovrebbe un po' spaventare i contemporanei. Sentite: "Se l'abbiamo aspettata a lungo qualche settimana in più non toglie a nessuno il gusto di guidarla. Ne vale la pena perché se è accattivante a prima vista la nuova bambina su strada si rivela addirittura entusiasmante". E noi che ridevamo degli immigrati meridionali che passavano la domenica a lavare e lucidare la nonna della bambina. "Poi la metti in moto e la passione aumenta. Scopri i vani porta oggetti in ogni angolo, la presa Usb, il meglio dei sistemi di connessione interattiva". La gente si ferma per vederla, per toccarla perché "chi la possiede ne farà soprattutto un modello da esibire. L'auto che ride va vissuta con gioia". Poi c'è il sadomasochismo super cretino dei vacanzieri da crociera. Salgono su una nave gigante per stare sdraiati sulle poltrone a mangiare in continuazione. Come vitelli all'ingrasso. Si alzano solo per andare alle slot machines. Una fiumana di gente che gioca come bambini scemi senza comunicare. Sulla enorme nave ci sono duemila turisti in vacanza e un migliaio di extracomunitari al loro servizio per rifornirli in continuità di prosciutto al forno caramellato al miele e la mela cotta in salsa di lampone.
Tutti intruppati a fare le stesse gite, le stesse cene di gala, gli stessi balli brasiliani. E poi, a metà pomeriggio, salsicce e lasagne, teglie di pizza a festoni, macchinette che sputano gelati. Si viaggia di notte, ci si sveglia presto, si passa attraverso il metal detector. C'è tutto nella grande nave, anche la sala operatoria, anche il piccolo obitorio biposto. Il supercretinismo cialtrone imperversa: su tutti i giornali ci sono fotografie di Lele Mora, un procuratore di divette televisive, e di Fabrizio Corona, uno che ha fatto fortuna fotografando e ricattando. Pare che anche Silvio Berlusconi lo voglia usare per la campagna elettorale come uno dei nuovi eroi del nostro tempo, uno che non sa far niente di onesto ma che passa il tempo fra belle donne e belle ville, non come quei poveretti che si battono per le poche lire di una pensione. Il cretinismo a guardar bene è la professione più redditizia di questo paese. Silvio Berlusconi che è stato per anni capo del governo non sapeva niente dei furfanti che lo circondavano, delle malefatte che combinavano, niente dei miliardi che Craxi mandava in Tunisia o in Centro America, niente degli avvocati che corrompevano i giudici, niente dei fascisti perenni che faceva salire al governo.Incomincia un'altra estate da cretinismo generale in cui non ci accorgeremo dei mafiosi che si sono impadroniti di Milano, degli assassini balcanici che trapiantano qui le loro mafie. Tutti felici per aver la Cinquecento con lo spruzzo di profumo a comando.
(20 luglio 2007)

da: http://espresso.repubblica.it

martedì 17 luglio 2007

La recensione del film di Alfonso Cuaron "I figli degli uomini" scritta dal filosofo Slavoj Zizek

Gli ultimi uomini

di Slavoj Zizek - 07/06/2007

Fonte: sagarana

Mentre una parte del mondo si spegne in stupidi piaceri artificiali, l'altra è decisa a lottare fino all'autodistruzione - Nei film di Hollywood l'ampio sfondo storico è solo un pretesto per il "vero argomento"; cioè il viaggio iniziatico del personaggio o della coppia protagonista. In Reds la rivoluzione d'ottobre fa da sfondo ai due innamorati che si riconciliano in un appassionato rapporto sessuale; in Deep impact l'onda gigantesca che sommerge l'intera costa orientale degli Stati Uniti è solo la scenografia della riunificazione incestuosa tra padre e figlia; nella Guerra dei mondi l'invasio­ne degli alieni è lo scenario in cui Tom Cruise riafferma il suo ruolo paterno. In I figli degli uomini di Alfonso Cuarón, inve­ce, lo sfondo è l'elemento principale. La fantascienza classica hollywoodiana presenta in genere un futuro pieno di invenzio­ni inaudite, dove però anche i cyborg si comportano come noi, o meglio come ci comportavamo noi nei vecchi melodrammi di Hollywood e nei film d'avventura. Nei Figli degli uomini non ci sono oggetti strani e Londra è esattamente come oggi, solo di più. Cuarón si limita a evidenziare il suo potenziale poetico e sociale: i sobborghi invasi dai rifiuti, le telecamere di sorveglianza dappertutto... Il film ci ricorda che la realtà è più assurda di qualunque fantasia. Una volta Hegel osservò che una persona somiglia più al suo ritratto che a se stessa. I figli degli uomini è la fantascienza del nostro presente. Siamo nel 2027 e la specie umana è diventata sterile. Il più giovane abitante della terra, nato diciotto anni prima, è stato appena ucciso a Buenos Aires. La Gran Bretagna vive in un perenne stato d'emergenza, con squadre antiterrorismo che danno la caccia agli immigrati clandestini e il governo impe­gnato ad amministrare una popolazione in calo che vegeta in uno sterile edonismo. Questi due tratti – la permissività edo­nistica con le sue nuove forme di apartheid sociale e il controllo basato sulla paura – sono forse tipici delle nostre società? Il colpo di genio del regista è questo: "Molte storie sul futuro", ha detto Cuarón in un'intervista, "immaginano un mondo dominato da un Grande fratello, ma io credo che sia un'idea nove­centesca della dittatura. La tirannia del ventunesimo secolo si chiama `democrazia"'. Per questo le persone che governano il mondo nel suo film non sono grigi burocrati totalitari in uniforme, come quelli di Orwell, ma amministratori illuminati, colti e democratici. I figli degli uomini non è un film sulla ste­rilità come problema biologico. La sterilità di cui parla Cuarón è quella diagnosticata molto tempo fa da Friedrich Nietzsche quando intuì che la civiltà occidentale si stava dirigendo verso "l'ultimo uomo", una creatura apatica senza passioni né impe­gni. Incapace di sognare e stanco della vita, l'ultimo uomo non corre rischi e cerca solo comodità, sicurezza e tolleranza reci­proca: "Un po' di veleno, ogni tanto, per fare sogni gradevoli. E molto veleno, alla fine, per una morte gradevole. Hanno i loro piccoli piaceri per il giorno e i loro piccoli piaceri per la notte, ma sempre badando alla salute. 'Abbiamo scoperto la felicità', dicono gli ultimi uomini, e strizzano l'occhio". L'ultimo uomo non vuole che i suoi sogni a occhi aperti siano disturbati, e per questo "molestia" è una parola chiave del suo universo mentale. Il termine è usato per indicare azioni brutali come lo stupro, le percosse e altre forme di violenza sociale che devono essere severamente condannate. Ma indica anche il fastidio per qualsiasi vicinanza eccessiva a un altro essere umano, con i suoi desideri, piaceri e paure. Due elementi determinano oggi la tolleranza liberale verso gli altri : il rispetto per l'alterità e la paura ossessiva della molestia. Non abbiamo niente contro l'altro a patto che la sua presenza non sia intrusiva, che l'altro non sia veramente altro. La tolleranza coincide con il suo contrario: il mio dovere di essere tollerante verso gli altri significa che non devo avvicinarmi troppo, che non devo intromettermi, insomma che devo rispettare l'intol­leranza per la mia vicinanza eccessiva. E questo che si sta af­fermando come il fondamentale "diritto umano" della nostra società: il diritto di non essere molestati, cioè di tenersi a distanza di sicurezza dagli altri. In gran parte delle cause per molestie i giudici proibiscono al molestatore di avvicinarsi alla sua vittima e gli impongono di tenersi ad almeno cento metri di distanza. È una sorta di difesa contro la realtà traumatica del desiderio dell'altro: è ov­vio che c'è qualcosa di violento nel mostrare apertamente la propria passione per un altro essere umano. La passione per definizione "fa patire" il suo oggetto, lo ferisce, e anche chi accetta con gioia di esserne il bersaglio non potrà mai farlo senza timore né sorpresa. È così anche per il divieto di fumare. Il fumo è stato bandito innanzitutto dagli uffici, poi dai voli aerei, dai ristoranti, dagli aeroporti, dai bar, dai club privati, in alcuni campus universitari nel raggio di cinquanta metri dall'ingresso degli edifici, e infine – in un caso esemplare di censura pedagogica che ricor­da le foto ritoccate della nomenklatura stalinista – le poste degli Stati Uniti hanno cancellato le sigarette dai francobolli con l'immagine di Jackson Pollock e del chitarrista Robert Johnson. Questi divieti prendono di mira il piacere eccessivo e rischioso dell'altro, incarnato dall'atto "irresponsabile" di accendersi una sigaretta e aspirare profondamente con un'im­perturbabile voluttà (al contrario degli yuppie clintoniani, che non aspirano, fanno sesso senza una vera penetrazione e man­giano solo cibi senza grassi). Come ha detto Jacques Lacan, se Dio è morto, più nulla è permesso. Moltissimi prodotti sono stati privati delle loro proprietà nocive: il caffè senza caffeina, la panna senza grassi, la birra senza alcol e così via. Il sesso virtuale è sesso senza sesso. E la dottrina di Colin Powell della guerra senza vittime (dalla no­stra parte, naturalmente) non è forse una guerra senza guer­ra? La politica come arte della buona amministrazione è una politica senza politica, e il multiculturalismo tollerante e liberale è un'esperienza dell'altro privato della sua alterità (nell'immagine dell'altro idealizzato vediamo le sue danze affasci­nanti e il suo approccio olistico ecologicamente sano alla real­tà, ma dimentichiamo le percosse alla moglie o lo stupro incestuoso). Per noi abitanti del primo mondo è sempre più difficile im­maginare una causa universale per cui valga la pena di sacrifi­care la vita. La spaccatura tra primo e terzo mondo segue la linea che contrappone una vita lunga, ricca e soddisfacente a una vita dedicata a una causa trascendente. È l'antagonismo tra ciò che Nietzsche definiva nichilismo "passivo" e nichili­smo "attivo". Noi occidentali siamo gli ultimi uomini, immersi in stupidi piaceri quotidiani; mentre gli estremisti musulmani sono pronti a rischiare tutto, impegnati in una lotta nichilistica fino all'autodistruzione. Nei Figli dell'uomo l'unico posto dove prevale uno strano senso di libertà è Bexhill, una città circondata da un muro e trasformata in un campo profughi diretto dai suoi abitanti, immigrati clandestini, che alla fine del film viene spietatamente bombardata dall'aviazione. La vita, lì, è in fermento: ci sono manifestazioni militari dei fon­damentalisti islamici ma anche gesti di autentica solidarietà. Ed è proprio qui che appare il neonato. E allora dove abbiamo sbagliato? Chi ha letto il marchese De Sade sa bene che la disinvolta affermazione della sessualità, spogliata da ogni traccia di trascendenza spirituale, si trasforma paradossalmente in un esercizio meccanico privo di autentica passione sensuale. Un rovesciamento simile si trova anche nell'impasse degli ultimi uomini di oggi, gli individui "postmoderni" che respingono ogni finalità "superiore" e dedi­cano la loro vita a una sopravvivenza piena di piaceri sempre più raffinati e indotti artificiosamente. Se le vecchie società gerarchiche schiacciavano gli impulsi vitali con i loro rigidi sistemi ideologici imposti e difesi dagli apparati statali, le so­cietà di oggi stanno perdendo la vitalità a causa del loro edonismo estremamente permissivo: tutto è lecito, ma a patto che sia decaffeinato e privo di sostanza. E questo vale anche per la democrazia: è sempre più decaffeinata, senza sostanza e forza politica. Un secolo fa, G.K. Chesterton scriveva: "Gli uomini che cominciano a combattere la chiesa per amore della libertà e dell'umanità finiscono per gettar via la libertà e l'umanità pur di lottare contro la chiesa". I fanatici difensori della reli­gione fanno lo stesso: hanno cominciato attaccando ferocemente la cultura laica contemporanea e hanno finito per ri­nunciare a qualunque esperienza religiosa significativa. E i guerrieri liberali sono così decisi a combattere il terrorismo e il fondamentalismo antidemocratico che finiranno per gettare via la libertà e la democrazia. Pur di dimostrare che il fonda­mentalismo non cristiano è la peggiore minaccia alla libertà sono pronti a limitare la libertà nelle nostre presunte società cristiane. Mentre i terroristi sono pronti a distruggere questo mondo per amore dell'altro, i nostri guerrieri antiterroristi sono pronti a distruggere il loro stesso mondo democratico spinti dall'odio nei confronti dell'altro, cioè dei musulmani. Oggi la politica dominante è la politica della paura, una difesa contro la possibilità di diventare vittime o di essere molestati: paura degli immigrati, della criminalità, della depra­vazione sessuale, paura perfino di uno stato in­vadente (con tasse troppo alte), delle catastrofi ecologiche, delle molestie. Ed è per questo che il politicamente corretto è l'espressione liberale per eccellenza della politica della paura. Una politica che si affida agli slogan spaventosi di uomini spa­ventati. All'inizio dei 2006 la politica contraria all'immigrazione ha conquistato l'Europa, tagliando il cordone ombelicale che la legava ai partiti di estrema destra. Dalla Francia alla Germa­nia, dall'Austria ai Paesi Bassi, con un nuovo orgoglio per la propria identità culturale e storica, i partiti più importanti hanno considerato accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti e devono adeguarsi ai valori culturali dei paesi in cui cercano accoglienza. È per questo che lo "scontro di civiltà" è la malattia di Huntington del nostro tempo, nel senso di Samuel Huntington, secondo il quale dopo la fine della guerra fredda "la cortina di ferro dell'ideologia" è stata sostituita con la "cortina di velluto della cultura". Questa visione pessimista può sembrare l'esatto contrario della luminosa prospettiva di Francis Fukuyama, quella di una "fine della storia" sotto forma di una democrazia liberale mondiale. Forse, però, lo scontro di civiltà è la fine della storia: i conflitti etnico-religiosi, cioè, sono la forma di lotta più adatta al capitalismo globale. Nella nostra era po­stpolitica, in cui la politica vera e propria viene progressivamente sostituita dalla buona amministrazione, le tensioni culturali – etniche e religiose – restano l'unica fonte legittima del conflitto. Perciò, per citare l'indimenticabile sintesi freudiana del presidente George W. Bush, non "sottovalutate male" I figli degli uomini : il nuovo film di Cuarón colpisce al cuore della nostra complessa situazione.
Un governo in affanno che deve durare

di EUGENIO SCALFARI

LA cosiddetta fase due del governo Prodi è cominciata da un paio di mesi. Quella dei provvedimenti per la crescita e l'aumento del potere d'acquisto dei ceti deboli: il cuneo fiscale ormai operativo, l'aumento delle pensioni sotto al livello di 650 euro, il sostegno ai giovani, l'avvio degli ammortizzatori sociali, la revisione concordata degli studi di settore, infine la trattativa sull'età pensionabile ancora in bilico, alla quale saranno destinati 4 miliardi mentre il Tesoro cerca di reperire un altro miliardo necessario a spalmare il costo dello "scalone" su un arco di tre anni. Aggiungerei un primo lotto di sostegno alle famiglie, la firma del contratto del pubblico impiego, l'assunzione di 60mila precari nelle scuole. Forse dimentico qualche altra cosa. Ma il guaio per il centrosinistra è che questa linea espansiva (comprensiva anche del pacchetto Bersani sulle liberalizzazioni) non ha prodotto, stando ai sondaggi, alcun effetto sul consenso degli elettori. Il governo resta ancora su livelli minimi, ma anche l'intera coalizione di centrosinistra registra molti punti di svantaggio rispetto alla coalizione opposta. La grande maggioranza degli osservatori politici è arrivata alla conclusione che governo e coalizione di centrosinistra non hanno alcuna probabilità di risalire la china della fiducia perduta. I vantaggi d'una crescita economica ancora sostenuta ed un buon andamento delle entrate fiscali non migliorano il rapporto tra gli elettori e il governo. La parola "agonia" ed altre analoghe come "sfarinamento, implosione, caduta libera" sono sulla bocca di tutti. Calderoli parla di "putrefazione". Berlusconi reclama ogni giorno nuove elezioni e scatena i suoi nell'ordalia pressoché quotidiana delle votazioni in Senato.
Insomma la crisi sotto traccia scuote di continuo la tenuta di Prodi, anche se l'esplosione o implosione che dir si voglia viene regolarmente rinviata. Dopo l'ennesimo tentativo di spallata avvenuto venerdì scorso al Senato sull'ordinamento giudiziario, fallito per un voto, il nuovo appuntamento è fissato per settembre. La crisi non è affatto scongiurata ma rimane per ora sotto traccia. Il malato, nonostante le prognosi sfavorevoli dei medici, continua a dare robusti segni di vitalità. Siamo dunque alle prese con un moribondo che si ostina a vivere. È positiva questa resistenza? Oppure è d'intralcio ad una ripresa del centrosinistra? E per il paese è utile o dannoso che il moribondo continui testardamente a vivere? Per dare un giudizio oggettivo e rispondere a queste domande bisogna porsi il problema di ciò che verrebbe dopo l'apertura d'una crisi. A questo punto bisogna necessariamente tirare in ballo il presidente della Repubblica perché le sue decisioni sarebbero, in caso di crisi, le sole veramente determinanti. Il Presidente applica la Costituzione. Per conseguenza non accetterebbe una crisi extra-parlamentare. Quali che fossero le decisioni di Prodi (salvo il caso di sue irrevocabili dimissioni) rinvierebbe il governo alle Camere per verificare se c'è ancora una maggioranza o se non c'è più. Dubito molto che le Camere voterebbero sfiducia a Prodi. Ma ammettiamo che la sfiducia sia invece votata. Si può star certi che Napolitano a quel punto nominerebbe un governo istituzionale per alcuni adempimenti necessari: la legge finanziaria e una nuova legge elettorale. Poi elezioni. Anche un governo istituzionale dovrebbe avere una maggioranza ma quasi sicuramente l'avrebbe. I presumibili candidati sono due: il presidente del Senato, Marini, oppure Giuliano Amato. La data del voto? La più prossima, oggettivamente, si può collocare al maggio-giugno 2008. Inutile dire che un anno con un governo istituzionale non è l'ideale per un paese che ha bisogno come non mai di decisioni rapide ed efficaci su molti versanti. Proprio mentre il governo Prodi sembra avere ingranato la marcia, una crisi e un governo istituzionale ci riporterebbero alla paralisi indipendentemente dalle capacità dei suoi componenti. Per conseguenza dico che il decesso dell'attuale Ministero non è una buona cosa né per il centrosinistra né, soprattutto, per il paese. Mettiamo ora a fuoco la situazione del centrosinistra e cominciamo dai riformisti del Partito democratico e da Walter Veltroni, intorno al quale si addensano ora manovre di ogni genere e tipo nei corridoi della politica e nei circuiti mediatici. Molti - direi quasi tutti - sembrano aver dimenticato come e perché è nata l'offerta di candidatura a Veltroni. È nata perché senza la prospettiva di quella candidatura la coalizione sarebbe già morta e di conseguenza anche il governo. Veltroni ha fatto di tutto per rinviarla ma poi ha dovuto cedere per necessità. Aveva tutto da perdere accettando. Quale che sia l'opinione dei professionisti in dietrologia, l'accettazione di Veltroni è stata un atto di generosità. Piero Fassino l'ha capito meglio di tutti e da quel momento è stato il più coerente nell'appoggiarlo rinunciando anche alle sue legittime ambizioni. Anche quello di Fassino è stato un atto di generosità. Mi pare giusto dirlo in una situazione in cui la generosità non è un sentimento molto diffuso. Se si guarda alle cause che determinarono la candidatura del sindaco di Roma per iniziativa di Massimo D'Alema, si vedrà che la questione delle primarie, delle candidature alternative e di quelle convergenti, è stata fin dall'inizio malposta. Si parla - per quanto riguarda le candidature alternative - delle primarie americane. Ma le primarie americane non hanno niente a che vedere con la situazione del nascituro Partito democratico. Le primarie americane servono a selezionare il leader che dovrà poi affrontare il leader del partito avversario, anche lui scelto attraverso lo stesso metodo a meno che non si tratti del presidente in carica che compete per il secondo mandato. La nostra situazione è completamente diversa. Qui si è fatto ricorso, per ragioni di necessità, ad un leader già esistente e già indicato da un vasto coro di elettori potenziali. Qualche cosa cioè di molto simile alle primarie che insediarono Prodi alla guida dell'Unione di centrosinistra. Anche allora infatti non ci furono vere primarie ma una sorta di plebiscito con la sola candidatura di bandiera di Bertinotti. Perciò tirare in ballo candidature alternative nel caso del Partito democratico è un madornale abbaglio. Spiace che persino Prodi sembri di tanto in tanto caderci. Non parliamo di Parisi. Dispiace che ci cada una persona seria come Rosy Bindi. Bersani, dopo averci seriamente pensato, ha infine compreso. Letta no. Si tratta di persone che fanno politica da molto tempo e sanno quale sia la sostanza del problema che non è quella (non dovrebbe essere) di precostituire pacchetti di voti di corrente all'interno del futuro partito, ma di dare forza al candidato prescelto. Soprattutto di aprire il Partito democratico ai giovani, ai simpatizzanti, agli elettori, affinché ritrovino il gusto della politica "perbene", della passione del fare, d'una visione condivisa del bene comune. Le correnti d'opinione ci saranno, nella Costituente e poi nel Partito costituito; è inevitabile ed è bene che ci siano opinioni diverse. Ma non nel momento in cui si deve creare il nuovo soggetto politico. Partendo da una situazione di grave mancanza di fiducia della società civile nei confronti della politica e della sinistra. Diffusa in tutto il Paese. Specialmente nel Nord. Veltroni è stato evocato - sì, è questo il termine appropriato per descrivere quella candidatura - anche se non soprattutto per una sorta di ecumenismo che circonda la sua figura di sindaco. Opporvi personalità che rivendicano la rappresentanza di specifici settori dei Ds e della Margherita è un nonsenso. I voti che potrebbero raccogliere sarebbero o troppo pochi o troppi. In tutt'e due i casi un errore. Questo almeno, per quel che vale, è il mio parere. Ci sono tuttavia anche dichiarazioni e "manifesti" convergenti su Veltroni che rivendicano il "coraggio" di posizioni e l'esplicito desiderio di caratterizzare il leader e profilarlo a propria somiglianza. Dichiarazioni e "manifesti" ovviamente legittimi ma, a mio avviso, assai poco appropriati. Lo sarebbero se il candidato prescelto si fosse presentato in pubblico esibendo soltanto se stesso senza dire "cose", senza fissare paletti, ignorando temi, domande, bisogni, speranze. Ma non è stato questo il caso. Nel discorso del Lingotto, poi in quello di Verona e presumibilmente in tutti gli altri appuntamenti che seguiranno, Veltroni ha reso esplicite le sue posizioni e l'orientamento che ritiene di poter dare al nascituro partito. Ha parlato di precariato, di previdenza, di sicurezza, di infrastrutture, di giovani, di Mezzogiorno e di Nord, di pressione fiscale da allentare, di evasione fiscale da perseguire, di lavoro autonomo e di lavoro dipendente, di Europa e di America. Queste sue posizioni sono state esplicitamente richiamate e fatte proprie dalle dichiarazioni e dai "manifesti" principalmente da quello di Rutelli diffuso tre giorni fa e supportato da molte firme qualificate. Perché dunque dico che a me pare un documento non appropriato? Per un punto, una frase, poche parole che peraltro sono le sole ad avere interessato i circuiti mediatici e quelli politici: "Alleanze di nuovo conio che il nuovo partito potrà stipulare". Chi ha orecchio per intendere ha inteso. Alleanze di nuovo conio significa, puramente e semplicemente, l'Udc di Casini. E poiché Casini ha sempre detto che può essere disponibile a concludere accordi col Partito democratico soltanto a due condizioni: rottura con la sinistra radicale e liquidazione del governo attuale, ecco che - magari al di là delle intenzioni dei promotori di quel "manifesto" - , il senso politico di esso è di far intravedere che, al bisogno, il nuovo partito sarebbe disponibile ad adempiere a quelle due condizioni. È appropriato un siffatto documento e dà forza a Veltroni spingendolo verso un'ala del riformismo? Indebolendo nel frattempo Prodi? Direi di no. Le reazioni della sinistra radicale infatti non sono mancate. Rifondazione comunista ha denunciato una manovra per rompere l'Unione di centrosinistra. Ma - ecco l'ultima questione da discutere - la sinistra radicale ha le carte in regola per accusare Rutelli di rottura del patto di alleanza dell'Unione? La sinistra radicale ha fatto di tutto in questo primo anno del governo di centrosinistra per mettere l'alleanza in difficoltà. Ha rallentato e indebolito ogni provvedimento del governo di cui è parte tutte le volte che esso confliggeva con la visione politica di una sinistra radicale, antagonista, movimentista. Dalla Tav alla base Usa di Vicenza, dall'Afghanistan alle pensioni, dalla politica di Padoa-Schioppa ai moniti delle agenzie finanziarie internazionali. Per di più ha sparato a palle incatenate contro il nascituro Partito democratico. Ha fatto il suo mestiere, la sinistra radicale? Forse sì. Ma certo non ha fatto il mestiere d'un partito che partecipa in condizioni minoritarie ad un governo di coalizione. Ha ottenuto molto più di quanto abbia dato. Ha mantenuto un tasso di litigiosità che ha causato un disincanto profondo tra gli elettori del centrosinistra e una vera e propria rabbia tra i ceti produttivi del Nord e del Nordest, senza neppure ottenere maggiori voti per Rifondazione e per gli altri cespugli della sinistra radicale. Se Rifondazione voleva questo risultato avrebbe dovuto restar fuori dal governo. Avendo deciso di entrarvi doveva accettare la regola che fa del governo una istituzione e non un luogo di occupazione partitocratica. La reazione di Rutelli, lo ripeto, non è appropriata ma la sinistra radicale, per quanto la riguarda, non ha titolo per protestare poiché in gran parte quella reazione è lei che l'ha provocata. Concludo in questo modo: 1. Prodi deve continuare nella sua fatica, come del resto sta facendo, assicurando al Paese un servizio indispensabile in mancanza di alternative, facendo in modo di operare con efficienza e continuità, mediando fin dove può, decidendo come deve fare quando la mediazione sia impossibile o snaturante. 2. Veltroni ha tutto l'interesse a non creare imbarazzi al governo e a procedere nella costruzione del nascituro partito puntando soprattutto sui bisogni e le speranze dei giovani, degli elettori, dei simpatizzanti. 3. La sinistra radicale si renda conto che l'elastico su cui si regge una coalizione ampia e differenziata non consente ulteriori tensioni senza rompersi. Se vuole tirarlo ancora sarà lei ad essere responsabile per la seconda volta in otto anni di aver riportato la destra berlusconiana al governo di questo Paese. 4. Il quale Paese non dovrebbe dimenticare che la predetta destra berlusconiana ha governato per cinque anni con maggioranze parlamentari schiaccianti senza fare una sola riforma degna del nome, senza aver creato infrastrutture, senza aver adempiuto ad una sola delle promesse elettorali che aveva fatto.

(15 luglio 2007)



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