giovedì 2 febbraio 2012

Quo vadis, Italia?

"Quo vadis, Italia?" di Antonio Polichetti - La Scuola di Pitagora Editrice


Quando lessi il libro di Naomi Klein, "Shock Economy", un'idea mi frullava per la testa per tutta la durata della lettura: gli italiani sono stati i veri inventori o precursori del moderno capitalismo dei disastri.
Nel 1980, infatti, mentre negli Stati Uniti veniva eletto, per la prima volta, Ronald Reagan, in Italia si verificò il terribile terremoto in Irpinia. Per cui, mente l'ex attore hollywoodiano restò impegnato nei successivi otto anni a diffondere e a concretizzare il neoliberismo selvaggio della Scuola di Chicago, che avrebbe gettato le basi per l'economia delle catastrofi, in Italia i politici corrotti, gli imprenditori parassitari settentrionali, la borghesia mafiosa e le organizzazioni criminali del Sud, le professioni liberali che mettono le loro competenze intellettuali a disposizione del malaffare, i pubblici funzionari infedeli, già la applicavano e la eseguivano diligentemente e già se la ridevano a crepapelle, manco fossero tutti dei Piscicelli De Vito prima maniera.
E, infatti, avevavo ottimi motivi per rallegrarsi, nonostante le devastazioni e le migliaia di morti provocate dal terremoto, perchè di lì a poco, grazie alla legge 219/81, che Polichetti definisce con termine ben azzeccato, "criminogena", si sarebbero spartiti la bellezza di 50mila miliardi di lire!
La consapevolezza che in Italia vi fossero caste e corporazioni che ingrassavano grazie alla spesa pubblica, sfruttando finanziamenti a pioggia, incentivi pubblici, risorse della collettività, e quant'altro, già era ben radicata nella mia testa a partire dagli anni '70 (soldi pubblici dati a fondo perduto alle imprese private decotte, che ricattavano lo stato e la società civile con la scusa e con la minaccia delle chiusure e dei licenziamenti; già nei '70, lo ricordo benissimo, si parlava di "socializzazione delle perdite d'impresa e di privatizzazione dei profitti"), ma dopo il terremoto dell' '80, la prassi di attingere truffaldinamente dalle casse dello stato si consolidò e si istituzionalizzò, potenziando e degenerando ulteriormente sia la casta politica che l'imprenditoria a rischio zero che le organizzazioni mafiose e camorristiche.
Si pensi dunque alla soddisfazione che ho provato leggendo questo libro di Polichetti che, con chiarezza e pertinacia, eleva questa constatazione ad analisi storico-politica e sociale della crisi italiana.
Anche se il testo del giovane autore napoletano passa in rassegna, con rigore scientifico ed esemplare metodologia di ricerca, avvalendosi di una vasta emerografia e di una notevole bibliografia, tutti gli episodi scandalosi e rovinosi della storia italiana della corruzione, dell'illegalità e del malaffare, non è il solito dossier di inchiesta, quello che ha scritto, ma un'opera di approfondimento nella quale la teoria storica, sociale e politica si intreccia efficacemente con la cronaca dei fatti esaminati.
Il libro, infatti, prologa con due capitoli storici che fanno risalire la crisi del Mezzogiorno d'Italia alla grande depressione economica del '600 (nel corso del quale secolo, i moti popolari nel Regno di Napoli furoni sconfitti lasciando mano libera all'ingordigia tributaria della corona spagnola e campo libero alla restaurazione del feudalesimo baronale) e la formazione del perverso e rapace "blocco sociale", che ha come fine lo spolpamento parassitario dello stato italiano e la appropriazione dei beni pubblici, all'ingresso nel governo unitario della cosiddetta "Sinistra storica".
Seguendo questo filo conduttore, l'autore ripercorre la storia italiana di oltre un secolo, dando una spiegazione convincente del per come e del perchè questo paese abbia vissuto perennemente sul debito pubblico, sul malaffare, sullo sfruttamento e sul consumo del territorio e delle risorse pubbliche. I fatti che vi si descrivono, esaminati in tante altre inchieste, servono, perciò, a convalidare la tesi che l'Italia è stata dalla sua fondazione dominata da un "capitalismo straccione" che ha azzerato il rischio e non ha mai esitato ad allacciare le più spregevoli alleanze e a perseguire i più schifosi obiettivi, pur di difendere i propri interessi e i propri privilegi. Checchè se ne dica, l'unità di Italia si è realizzata compiutamente in questa ignobile consociazione tra la borghesia, l'impresa e la finanza del nord e i latifondisti, prima, e la borghesia mafiosa e le organizzazioni criminali del sud, poi. Il tutto tenuto insieme dalla politica corrotta, dalle professioni liberali conniventi e dagli apparati dello stato compiacenti, che si sono sempre fatti servi prezzolati di questo patto scellerato.
Il libro, alla luce di queste teorie che prendono spunto dal pensiero progressista italiano, da quello meridionalista e da quello di Gramsci in particolare, nonchè, come ripetutamente ci avverte l'autore, dal pensiero umanistico meridionale di Giordano Bruno, dia Gianbattista Vico, di Gaetano Filangieri, di Mario Pagano, di Bertrando Spaventa e di Benedetto Croce, procede impeccabilmente nell' analisi fino al penultimo capitolo. Solo l'ultimo capitolo, quello che necessariamente tutti gli autori dedicano, dopo aver diagnosticato ampiamente la situazione, ai pronostici, agli auspici e ai progetti, mi lascia perplesso. Dopo averci parlato di "blocco sociale" dominante per tutto il libro (trascurando, però, il "blocco" antagonista che pure è stato attore di una certa prospettiva di rinnovamento; ma questo lo capisco, perchè l'obiettivo del libro è quello di dimostrare le responsabilità del disastro italiano), l'autore rilancia, appellandosi a chi? alla buona volontà dei politici, degli intellettuali e della stessa borghesia dei disastri?, solo l'unità politica, territoriale e istituzionale europea come soluzione finale, senza spiegarci chi e perchè la dovrebbe realizzare, o per meglio dire, sulle spalle di quale "blocco sociale" alternativo dovrebbe concretizzarsi. Ma, chiaramente, questo è un tema che dovrebbe investire, soprattutto, partiti, movimenti, associazioni e sindacati.



delinus

Morire di rifiuti, reportage da Napoli Nord

DI PETER POPHAM – MARTEDÌ 31 GENNAIO 2012


L’inviato speciale dell’Independent Peter Popham visita l’area nota come Triangolo della morte per l’alta incidenza di tumori di origine ambientale: ecco il racconto pubblicato dal giornale britannico

Gli antichi romani chiamavano questa regione Campania felix, “felice Campania”, e si può ancora capire perché. Una volta era un paradiso terrestre: il Mar Tirreno pieno di pesci, il Vesuvio a sud, che minacciava distruzione, ma a cui è anche dovuta l’immensa fertilità del suolo.
Qui, nella vasta pianura ad est di Napoli, sorsero città che, grazie a questa fertilità, erano ancora prospere ancora mille anni dopo. Diventarono importanti sedi della cultura: nel sedicesimo secolo una di queste, Nola, produsse il genio inquieto di Giordano Bruno, uno dei primi a giungere alla conclusione che la Terra girava intorno al sole, piuttosto che il contrario, e che le stelle erano altri soli con propri pianeti, e che erano infinitamente numerose e sarebbero esistite per sempre. Per questi oltraggi contro la fede la Chiesa lo bruciò sul rogo a Roma.
L’uomo che mi guida nella città di Bruno e mi porta ad ammirare la vista del convento medievale di Sant’Angelo in Palco, sollevato in alto sopra la pianura come un grande pulpito, è un nolano come Bruno, ed estremamente orgoglioso della sua città, della sua storia e del suo patrimonio. E come Bruno, è toccato a lui di dire le le verità che le autorità non vogliono sentire.
Il nome del cardiologo Alfredo Mazza, oggi un ancora giovane 40 enne, divenne noto non solo in Italia, sette anni fa quando, in un rapporto pubblicato da The Lancet Oncology, la rivista britannica sul cancro, definì “Triangolo della Morte” la zona delimitata al suo estremo orientale con la sua città natale e ad ovest con Marigliano e Acerra distanti rispettivamente 8 km e 17 km.
La sua ricerca ha rivelato che in questa zona l’incidenza di alcuni tipi di cancro è massicciamente più alta che altrove in Italia. In tutta Italia, in media, 14 maschi ogni 100 mila muoiono di cancro al fegato, qui, la media è di 35,9. L’incidenza di cancro alla vescica è quasi due volte più elevata, e di leucemia il 30 per cento più alta. E anche se non in grado di dimostrarlo, aveva una spiegazione. “Duecentocinquantamila persone nella regione sono state esposte a sostanze inquinanti tossiche per decenni”, ha detto. “Per livello di inquinamento aria, acqua e prodotti della zona sono ben al di sopra dei livelli regolamentari.”
L’inquinamento da automobili e camion in Campania non ha probabilmente rivali nel cuore industriale nel nord del paese. Ma per il dottor Mazza, la densità del traffico ha un significato diverso. “Questa zona è significativa in quanto è il crocevia più importante di autostrade nel sud Italia,” mi dice. In altre parole, Nola, Marigliano e Acerra sono molto facili da raggiungere. Se lo sviluppo moderno d’Italia avesse avuto luogo in un modo più equilibrato, con il sud che avesse goduto di investimenti simili a quelli nord, questa facilità di accesso avrebbe ormai trasformato il “Triangolo” del dottor Mazza in qualcosa di simile alla zona densamente industrializzata tra Milano e Bergamo. Ma nonostante il favoloso porto di Napoli, ciò non è mai accaduto. Quel che è successo invece è stato molto, molto peggio: questa entroterra di Napoli, grazie alle autostrade, è diventato la pattumiera, la pattumiera avvelenata, del Paese. E grazie a un padrino-pentito napoletano chiamato Nunzio Perrella, nei primi anni 1990 ha cominciato ad esser chiaro che la camorra, la mafia di Napoli, aveva scoperto un nuovo commercio lucrativo.
Come le migliaia di fabbriche, raffinerie e altri impianti industriali del nord prosperarono durante il boom degli anni 1980 e 1990, qualche ignoto boss – un gangster, un influente uomo d’affari, forse un politico potente – colpirono con astuzia per dare alle industrie d’Italia un vantaggio esclusivo sulla concorrenza dell’intero continente. Invece di pagare profumatamente per avere i loro rifiuti tossici smaltiti correttamente da società specializzate, avrebbero pagato la criminalità organizzata per trasportarli via camion e semplicemente “perderli”. Le organizzazioni criminali si sarebbero fatte carico di tutta la cosa: i loro ben istruiti colletti bianchi avrebbero appianato le questioni burocratiche, falsificato i documenti, pagando per superare ogni ostacolo ufficiale, pagando anche i proprietari dei terreni dove i rifiuti tossici venivano sversati. I produttori, le raffinerie e il resto pagavano alle organizzazioni criminali solo una frazione di quello che sarebbe costato per ottenere il lavoro svolto in modo sicuro e legale.
La camorra ha preso in consegna i rifiuti e se li è portati a casa – non per le strade densamente popolate di Napoli, ma nell’entroterra agricolo, “Campania felix”. Li ha scaricati sempre e ovunque: nei campi, in vecchi pozzi, in cave dismesse, all’interno o intorno ai canali. A volte ha semplicemente sepolto i rimorchi carichi o interrato i contenitori. A volte ha mescolato i rifiuti con il terriccio e lo ha sparso sui campi. La cosa è andata avanti per anni e, poiché lo Stato italiano, soprattutto nel sud, è notoriamente lassista, per lungo tempo nessuno ne è stato mai al corrente.
Ma l’andirivieni di camion per tutta la notte non poteva certamente essere ignorato. Poi c’erano glieventi strani, che hanno la sfumatura di leggende metropolitane: fumo che esce dalla terra in condizioni di particolare, come se la terra fosse vulcanica; acqua dei canali o del suolo di una tonalità di blu malaticcio. E poi, quando gli anni sono diventati decenni, i giovani hanno cominciato ad ammalarsi.
Carolina Capasso, che vive a Marigliano, ha perso suo figlio di 21 anni Andrea di sarcoma dei polmoni, uno dei tumori che, secondo il dottor Mazza, è più probabile che sia causato dai rifiuti tossici. “A poco a poco divenne chiaro che sempre più persone, soprattutto giovani, stavano avendo problemi di salute,” dice, ricordando gli albori della lenta consapevolezza locale del problema. “Hanno avuto allergie, leucemie, tumori vari. E mentre crescevano uno sarebbe morto di cancro, uno di leucemia, e gradualmente abbiamo iniziato a capire che c’era qualcosa di sbagliato. Nel 2009, mio figlio ha iniziato a sentirsi male e abbiamo scoperto che aveva il cancro:. un ragazzo di 21 “
Incolpa, in particolare, un magazzino pieno di prodotti chimici agricoli vicino alla sua casa (Agrimonda, ndr), dove c’era stato un’esplosione e un incendio anni prima, all’indomani del quale, dice, l’emergenza non era mai stata adeguatamente affrontato – ma, come nel resto del Triangolo, collegare la causa con l’effetto è un compito senza speranza. “Sono convinto che mio figlio si è ammalato a causa di queste sostanze, la sostanza disgustosa che c’è a Marigliano,” va avanti. “A poco a poco abbiamo scoperto che nessuno faceva nulla. Andrea è stato malato di questo tipo di tumore per sette mesi [prima di morire]. Altri, sono morti, anche bambini. Quello che posso dirvi? Marigliano è una città dei morti viventi”.
Pochi mesi dopo la morte di Andrea, Antonella Di Francesco lo seguì, contraendo il cancro della lingua e morendo all’età di 35 anni. Le loro famiglie vivevano una vicino all’altra, nella stessa abbandonata e fatiscente zona a Marigliano.
Vado a far visita a Gennaro Di Francesco, padre di Antonella. Ha perso anche la moglie, morta sulla cinquantina, così ora vive da solo con sua nipote di 11 anni, Teresa, figlia di Antonella. Il loro appartamento al primo piano è privo di comfort. Siamo un paio di giorni prima di Natale quando faccio loro visita e vi è un grande albero di Natale in un angolo, con su ciuffi di ovatta. Gennaro, un operaio metallurgico, si sottopone alle mie domande, come si potrebbe fare per un esame del sangue, i suoi grandi occhi grigi ampi e vuoti. Teresa, scura di carnagione e con un sorriso da dolce zingara, mi fa una tazzina di caffè.
Sono trascorsi due anni dalla diagnosi di Antonella, dice Gennaro. “E ‘stata in ospedale a Napoli per un mese, ha fatto radio e chemioterapia e ha cominciato a stare meglio, ma poi è peggiorata di nuovo. Poi l’ho portata in un ospedale per il cancro a Milano, dove hanno fatto un intervento per rimuoverle la mascella, poi ad un altro ospedale a Torino per un’altra operazione. “Niente di tutto questo l’ha aiutata. Alla fine dovevamo nutrirla attraverso un tubo nello stomaco.
“Molti giovani sono morti qui intorno”, ricorda. “Dieci o 20, che io sappia, ed ancora oggi, ogni tanto sento di un altro.” I rifiuti tossici sono una presenza persistente. “Tutti sanno che è un problema, ma non lo ammettono e non fanno nulla. Perché è un grande business. I politici dicono che stanno per risolverlo, ma non lo fanno.”
Allora, chiedo, dove il problema è concentrato? Qual è la fonte del veleno? “Vai a Boscofangone,” dice. “Al di là di Faibano. Ecco dove scaricano tutto”.
Nomi di luogo come Boscofangone, letteralmente “bosco fangoso” e Pantano, fanno ritornare al passato remoto, quando questa zona era paludosa e soggetta a frequenti inondazioni. Nel 17° secolo i Borbone, sovrani spagnoli di Napoli, presero il problema in mano, costruendo 55 chilometri di canali, i Regi Lagni, da Nola verso il mare con altri 210 chilometri di canali secondari di alimentazione”, che producono l’immagine di una lisca di pesce”, come uno storico del luogo li definisce. E’ stata una magnifica impresa di ingegneria e ha mantenuto la pianura ben drenata per secoli. Fu solo con l’inizio degli anni del boom dopo la seconda guerra mondiale che le cose cominciarono ad andare storte.
Guido da Marigliano a Polvica, cercando la nascosta Boscofangone, su un terreno che non è né città né campagna. Sacchetti di plastica della spazzatura sul lato della strada. Edifici industriali, tra cui un centro nuovo fiammante di riciclaggio dei rifiuti, si alternano a frutteti e campi di ortaggi, sono fermato a un certo punto da un branco di pecore sporche e dalle lunghe orecchie che attraversano la strada, per recarsi al pascolo in un campo. Questa zona non è passata dall’agricoltura all’industria – le due cose continuano a coesistere – ma è come se vivessero in diverse dimensioni, ognuna ignara dell’altra.
Mi fermo in un bar nella città di Polvica, contro i monti del Partenio, segnati dalla cava, per chiedere indicazioni. Il vivido, panciuto barista, Massimo Bernardo di nome, con una faccia come quella di Gene Wilder, mi dice dove andare. “Svoltare a sinistra dalla stazione di servizio Esso, guidare fino alla piccola chiesa rotonda medievale,” dice. “Il canale Boscofangone comincia lì”.
Il signor Bernardo sa tutto sul problema dei rifiuti tossici, ma si è convinto che è ormai tutto un problema del passato. “Sì, c’erano i camion che circolavano lungo il canale per tutta la notte, sversando i loro carichi,” ricorda. “Ma hanno ripulito tutto. Questo è il terreno migliore in Italia! Produciamo i migliori pomodori, le migliori patate, le migliori arance … Perché importare tutta quella roba dall’estero, se abbiamo i migliori prodotti qui? “Seguo le sue indicazioni. All’ingresso del canale, chiuso da una sbarra, c’è una nota ufficiale, che descrive “Interventi di Manutenzione straordinaria per l’adeguamento funzionale” (“Operazioni di manutenzione straordinaria per il funzionamento soddisfacente”) del canale dei Regi Lagni. Tracce di bulldozer lungo il percorso indicano che la “bonifica”, il clean-up, che è stato promesso di iniziare il 26 settembre 2011 e proseguire per 180 giorni, ha infatti preso il via: il canale non è più la distesa di schiuma con spazzatura come si vede in un video incredibile disponibile su YouTube, i suoi fianchi non sono più intasati di vecchi frigoriferi, lavatrici, sacchetti di plastica e barili di petrolio. Ma non sono scomparsi: dopo aver camminato per mezz’ora scopro che un nuovo carico di oggetti, tra cui uelli sopra elencati, sono stati scaricati direttamente nel canale, bloccando il flusso.
Contrariamente alle opinioni velenose di attivisti locali, il lavoro per affrontare il degrado della zona è stato intrapreso. Il problema è che si è trattato di un una-tantum. Una volta puliti, i canali avrebbero bisogno di essere monitorati, protetti, custoditi. Avrebbero bisogno di essere reintegrati in vista della futura pianificazione della regione. Progetti elaborati dalle autorità locali prevedono km di canali alberati che attraversano aree ricreative e parchi archeologici – ma questi sono sogni irrealizzabili. Invece, il canale è una reliquia di un passato di cui pochi locali sembrano essere a conoscenza o preoccuparsi, e, a meno che protezioni adeguate siano messe in atto, gli sversatori aspettano semplicemente il loro momento per iniziare di nuovo le loro pratiche.
Nel frattempo, c’è la questione di quale effetto molti anni di scarichi illegali hanno avuto sulla falda acquifera della regione e sulla catena alimentare. Emblematici di quel massiccio danno alla salute pubblica sono due grandi, ben squadrati cumuli di Dio-sa-cosa ad un paio di centinaia di metri dal canale, coperti con pesanti teli di polietilene nero: cumuli di rifiuti tossici che sono stati sequestrati e confiscati qui. Il telone ferma le emissioni di ciò che è dentro verso l’aria, ma non fa nulla per impedire le infiltrazioni nel terreno, nella falda freatica e quindi nella catena alimentare. Che è il cuore del problema, molto più delle visibili cicatrici di ciò che resta della campagna.
In Italia è sempre difficile separare surriscaldate teorie della cospirazione dalla realtà. Anche un osservatore astuto e ben informato come il dottor Mazza sembra avere un debole per le maligne ed ampie spiegazioni degli eventi. “Il problema dei rifiuti tossici non è venuto per caso”, mi dice appena ci incontriamo. “E’ il risultato di un patto tra criminalità organizzata, i poteri forti dello Stato, i servizi segreti e, forse, la massoneria, un patto per salvare l’industria della nazione.” La distruzione dell’ambiente di questa regione, secondo questa teoria, è considerato come un prezzo accettabile da pagare. Si tratta di una spiegazione affascinante, ma come la maggior parte di tali teorie è a corto di prove: non ho visto alcuna prova utile a dimostrare che il disastro della Campania sia il risultato di un complotto diabolico. Indubbiamente l’Italia settentrionale ha usato questa regione come una vasta area di discarica senza licenza. Indubbiamente i responsabili degli sversamenti sono stati boss di camorra o persone sul loro libro paga. Ugualmente senza ombra di dubbio l’incidenza di alcuni tipi di cancro e malformazioni genetiche è scandalosamente alta. Al di là di questi fatti, però, è impossibile affermare con convinzione che vi è stato un terribile piano – impossibile ma anche inutile. La logica economica di quello che le bande hanno fatto è evidente.
Scaricare rifiuti tossici è un problema particolare con implicazioni terribili per la salute pubblica, ma fa parte di una crisi molto più grande e apparentemente insolubile in questa regione che coinvolge lo smaltimento dei rifiuti di ogni genere. L’immagine persistente di Napoli nel mondo esterno non è più della grande città, la baia immensa con il Vesuvio alle spalle, ma di strade fiancheggiate da montagne di spazzatura domestica non raccolta. Questo fenomeno rivoltante va e viene – ho la fortuna di visitare la città quando si è a livelli bassi – ma come il problema dei rifiuti tossici, non è mai veramente risolto.
Venti o più anni fa, la camorra è riuscita ad ottenere un quasi-monopolio nello smaltimento di rifiuti di ogni tipo in Campania. Ora continuano a usare questo potere come strumento di ricatto ogni volta che un nuovo sindaco o altro funzionario minaccia di rompere il meccanismo facendo rispettare la raccolta differenziata dei rifiuti (che esiste a malapena qui) o adotti altre misure decisive per risolvere il problema in modo permanente. In questo, le forze politiche locali hanno lasciato il gioco nelle mani delle bande, orchestrando ostilità verso nuovi inceneritori. E l’accomodante, simpatica natura del personaggio locale, persone come Massimo Bernardo, con la sua allegra certezza che il problema dei rifiuti tossico è stato risolto – non aiuta molto.
Piera Mucerino, una donna del posto che da anni partecipa a campagne contro il problema dei rifiuti tossici, dice che il problema è che la gente si rassegna. E’ ossessionata dai risultati di un esperimento che una volta letto. “Hanno messo un cane in una gabbia”, spiega. “Hanno mandato scosse elettriche lungo il lato destro della gabbia, il cane si è spostato a sinistra, poi hanno mandato le scosse lungo il lato sinistro e il cane si è spostato a destra, poi hanno messo in corrente tutta la gabbia:.. il cane si è arreso ed è rimasto dov’era. Poi, con le scosse ancora in corso attraverso tutta la gabbia, hanno aperto la porta. Il cane è rimasto dov’era. “Siamo così”, conclude. “Rassegnazione. Non importa cosa succede, alla fine non ci muoviamo. Ci sediamo lì e lo accettiamo. Le persone reagiscono alle cattive notizie, ma dopo un po’ dimenticano e vanno avanti con la loro vita. E quando altri muoiono di cancro semplicemente sperano che non succeda a loro, o pregano Dio. Invece di fare una grande battaglia per tutti, la gente dice, “farò una piccola battaglia per me”. Per Andrea e Antonella e molti altri nella Campania Infelix, le piccole battaglie sono finite male.

martedì 20 dicembre 2011

Governo tecnico dei Sindacati

Alla domanda dell'intervistatore del Corriere: Lei al posto di Monti che avrebbe fatto?, la segretaria della Cgil Camusso ha risposto: «Lo abbiamo detto molte volte. Avremmo introdotto forme serie di prelievo sulle grandi ricchezze e non misure così leggere che rasentano la trasparenza. Avremmo messo un sano tetto alle retribuzioni più alte e alla pluralità di incarichi pubblici e cumuli multipli tra stipendi e pensioni d'oro. E avremmo fatto cose più incisive sull'evasione, solo per fare qualche esempio». Si tratta qui di una posizione non solo di difesa dei diritti dei lavoratori, cosa che i Sindacati finalmente hanno preso a cuore, ma di una posizione programmatica anche se limitata ad alcuni aspetti. Del resto Camusso precisa nella stessa intervista che é necessario prendere misure di rilancio dell'economia, per le quali sono necessarie decisioni esattamente opposte a quelle che il governo sta cercando di prendere. Sono misure quelle di Monti che hanno per scopo di trasferire buona parte del reddito della popolazione verso i grandi capitalisti. Il governo Monti, formalmente illegale, é il rappresentante dell'1% della popolazione, ciononostante pretende imporre misure che riguardano il 99% della stessa. Al confronto i Sindacati sono in questo momento la forza piú rappresentativa della popolazione residente in Italia. Se si vuole affrontare una crisi con responsabilitá é necessario che le soluzioni siano guidate da forze che hanno l'appoggio e la fiducia dei lavoratori, e che comunque hanno una struttura che permette alla massa, quando fosse necessario, di poter intervenire per correggere e riorentare il loro operato. Se si lasciano i banchieri a decidere le misure per risolvere la crisi attuale del capitalismo l'unica conclusione sará la catastrofe. I Sindacati hanno in questo momento la responsabilitá di essere gli unici a poter fermare la riduzione a schiavitú economica del popolo italiano. Solo con gli scioperi e le mobilitazioni non ci sará nessuna possibilitá di interferire nel programma del governo. Le lotte potranno invece avere una capacitá di mobilitare il 99% se si intrevederá uno sbocco programmatico e di potere. Lo sbocco puó essere: Governo Tecnico dei Sindacati Contro la Crisi! 
NicolaiCaiazza
20/12/2011

giovedì 17 novembre 2011

Esulto per la caduta di Berlusconi, ma non gioisco per Monti

Il giorno dopo il golpe militare di Pinochet, a Santiago del Cile arrivarono i "Chicago boys", gli economisti cresciuti alla scuola liberista di Milton Friedman, per prendere in mano le sorti economiche del paese e per guidarlo verso quella rinascita neo-liberista che ci ha portato, diritto diritto, al capitalismo selvaggio, alla globalizzazione sconsiderata, ai suoi scempi, alle sue ripetute crisi, all'abbattimento dello stato sociale e al rigonfiamento del debito degli stati e delle famiglie. Oggi, il capitalismo finanziario e l'imperialismo bancario, non hanno più bisogno della mano dei colonnelli: insediano direttamente gli economisti di parte e i banchieri di fiducia al governo di quello che rimane degli stati nazionali. E' proprio ciò che sta accadendo in Italia con la nascita del governo Monti, con il quale si inaugura la nuova fase di governo diretto delle banche e dei circoli finanziari e la sottomissione definitiva della politica all'economia e alla finanza. Sia ben chiaro: a tutto questo, oltre al trend e alla speculazione internazionali, ha concorso lo sciagurato governo Berlusconi, che già di per sè aveva installato, a Palazzo Chigi, il governo diretto del monopolista e dei suoi affari, condendolo di populismo illusionistico e di sciovinismo corporativo e territoriale. Ma la finanza internazionale doveva prevalere sugli interessi particolari sia degli stati nazionali che dell'affarista spregiudicato e manipolatore di turno. Per questo la borghesia italiana, alleata con la finanza internazionale, ha deciso che era venuto il momento di mettere da parte l'inconcludente e scandalistico Berlusconi per far posto a un governo che fosse diretta espressione di quella speculazione internazionale che, come si dice a Napoli, prima ci "ciacca" (cioè, ci ferisce, ci fa venire i bitorzoli) e poi fa finta di medicarci. Per tutto questo, se sono contento che sia finalmente finita l'insulsa era berlusconiana, allo stesso tempo non mi viene proprio di gioire per Monti che, prevedo, applicherà quelle ricette iperliberiste volte a rafforzare il potere e la ricchezza della grande finanza internazionale e ad assottigliare il già ridotto tenore di vita degli italiani.

sabato 24 settembre 2011

LE GRANDI RICCHEZZE DEI PICCOLI COMUNI

LE GRANDI RICCHEZZE DEI PICCOLI COMUNI di Gerardo Troncone presidente dell'Archeoclub di Avellino. Uno dei volti più belli dell'Italia è costituito dai suoi innumerevoli tesori d'arte e di storia. Negli ultimi anni, i trenta più grandi musei hanno avuto circa 25 milioni di visitatori (con il 50% concentrato nei sei più importanti, Musei Vaticani e Uffizi in testa), le località d'arte sono state fra le mete più ambite, visitate da oltre la metà degli stranieri arrivati in Italia, il turismo e l'industria della cultura costituiscono una voce significativa del Prodotto interno lordo nazionale, con un fatturato di circa 70 miliardi, pari a circa il 5%. Tutto ciò malgrado un'azione politica nel settore a dir poco dissennata e dagli esiti paradossali. Basti citare l'ultimo rapporto della Corte dei Conti al ministero per i Beni Culturali, dove si legge che l'archeologia potrebbe “essere il primo volano del turismo culturale in Italia, con tutte le implicazioni sul piano scientifico ed economico” e dove si rileva il dato a dir poco inquietante, che da una parte i fondi a disposizione del ministero sono scesi in dieci anni dallo 0,41% allo 0,25% del Pil, mentre dall'altra il 55% delle risorse disponibili nel 2010 (in tutto circa 550 milioni di euro) non è stata spesa, cioè è rimasta nel cassetto del ministero. Non è certo per caso che l'Italia in quarant'anni è passata dal primo al quinto posto delle mete turistiche globali (Sergio Rizzo, “Corriere della Sera” del 23 maggio 2011). Per consolarsi, spesso ci si riempie la bocca col dire che l'Italia possiede il 70% dell'intero patrimonio mondiale, il che non corrisponde affatto al vero, se si pensa agli immensi tesori ancora sepolti, ad esempio, in Cina o in Africa. Il vero primato dell'Italia è costituito non tanto dalla quantità dei beni culturali che possediamo, quanto delle caratteristiche di tale patrimonio. In effetti, contrariamente a quanto avviene in quasi tutti gli altri Paesi del Mondo, il nostro patrimonio è diffuso nell'intero territorio nazionale ed è nello stesso tempo quasi ovunque stratificato nei millenni. Le bellezze artistiche e paesaggistiche sono disseminate dalle Alpi alla Sicilia, ed esprimono una storia che possiamo leggere attraverso molteplici stratificazioni, che vanno dal Paleolitico alla Magna Grecia, dal periodo romano alla Cristianità, dal Medioevo al Rinascimento all'Età Moderna. Il territorio italiano, storicamente policentrico, offre nel suo insieme l'idea di un grande museo diffuso, con i suoi oltre duemila siti archeologici, le decine di migliaia di chiese, castelli, fortificazioni, giardini, dimore storiche. Non necessariamente poi questo tesoro lo si deve ammirare nel chiuso dei grandi musei. Esso non ha confini: lo si può godere anche solo passeggiando per strada, standosene seduti su una panchina all'ombra di un tiglio, entrando in una piccola cappella a pregare. Innumerevoli sono i tesori d'arte custoditi in luoghi sconosciuti ai più e ancor oggi l'etichetta di minore grava su una parte vastissima del nostro patrimonio, che spesso è visto come un peso e non come un'irrinunciabile occasione di uno sviluppo, in grado oltretutto di dare lavoro a centinaia di migliaia di giovani, specialmente nel Mezzogiorno. Nell'ambito di questo vasto e ancora inesplorato patrimonio culturale minore non va dimenticato che dei circa ottomila Comuni italiani oltre mille possiedono centri storici di altissimo pregio: sono questi piccoli borghi che, se adeguatamente valorizzati, ben potrebbero diventare musei di se stessi, e dove lo stesso edificio museale tradizionale potrebbe non essere più necessario, bastando anche un polo di gestione del sistema. La manovra economica in atto, figlia di una maggioranza arrogante e di un'opposizione distratta, prevede una non meglio precisata soppressione proprio dei piccoli Comuni, moltissimi dei quali – in Irpinia tutti – hanno la prerogativa di avere ostinatamente salvato il proprio borgo antico, cuore pulsante della memoria collettiva, luogo dell'anima. Si dimentica ancora una volta che molti piccoli Comuni (quelli irpini in primis) sono rimasti tali anche perchè hanno scelto la strada del vivere a misura d'uomo, del rispetto del territorio, dell'uso moderato e corretto delle risorse disponibili, laddove per diventare grandi (o grossi) altri Comuni hanno imboccato la via dell'espansione selvaggia e indiscriminata, del sacco delle coste e dei paradisi naturali, che è la stessa strada dei periodici e ricorrenti dissesti naturali (frane, alluvioni, terremoti, eccetera). Oggi si propone una norma che non produce quasi nulla in termini economici (si parla dello 0,2 per mille dell'intera manovra, cioè quanto si risparmierebbe con la riduzione di una quindicina di poltrone parlamentari), che fra cavilli interpretativi e furbate varie probabilmente non sarà neanche attuata, e della quale resterà solo il senso amaro della stupidità e dell'ignoranza di chi l'ha voluta. A prescindere da tutto e per concludere, mettiamoci davanti agli occhi uno a caso dei parlamentari campani di oggi (senza scomodare la faccia rubizza del ministro che impazzava a reti unificate con il cravattone verde, la giacca azzurra, i pantaloni arancio e i calzini chissà). Visto che valgono all'incirca la stessa cifra, pensate che sia meglio mantenere la sua poltrona o cento piccoli Comuni? Gerardo Troncone presidente dell'Archeoclub di Avellino (da: Il Mattino - Avellino del 20 settembre 2011)

venerdì 23 settembre 2011

Manuel Castells: Sacrifici umani in nome dei mercati

Il socialista José Luis Rodríguez Zapatero passerà alla storia come il peggior presidente della Spagna democratica. Il suo predecessore, José María Aznar (del partito popolare), almeno aveva una certa coerenza ideologica. La pantomima dell’ultima riforma costituzionale, che prevede l’inserimento della norma del pareggio di bilancio, è stata orchestrata dai due più grandi partiti del paese con il favore della notte e dell’estate e colpisce al cuore la democrazia e l’autonomia dello stato. Una riforma necessaria, così ci dicono, imposta da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy per contrastare la sfiducia dei mercati nei confronti del debito spagnolo. Questa sfiducia avrebbe potuto innescare a sua volta la crisi di altri debiti europei, soprattutto di quello italiano, e affondare l’euro. Riportare a galla la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda è difficile. Salvare la Spagna dalla bancarotta è impossibile sia per le finanze tedesche sia per quelle francesi. Ecco il motivo, dunque, della pressione sul governo spagnolo, che da tempo ha ormai abbandonato qualsiasi velleità di sovranità economica per sottostare alle profezie sul comportamento dei mercati. Un potere supremo e misterioso che dev’essere placato con dei sacrifici umani: i tagli alla spesa sociale colpiscono la sanità, l’istruzione e le pensioni. In altre parole, la vita. Ma chi sono i mercati? Qualcuno di voi conosce personalmente qualche mercato? I mercati sono gli investimenti gestiti dagli intermediari finanziari. Ma cosa vogliono gli investitori e i loro intermediari? L’equilibrio fiscale? Garantire la solvibilità del debito a lungo termine? No. Il vero motore degli investimenti è il guadagno, puro, semplice e a breve termine. È così che funziona il mondo della finanza. È dal guadagno che dipendono i dividendi degli azionisti, ma soprattutto le commissioni e i bonus degli operatori finanziari. I guadagni a breve termine si ottengono in diversi modi, anche scommettendo sull’altalena del valore dei titoli finanziari, compresi i titoli di stato e le valute nazionali. Per alcuni, insomma, la svalutazione del debito sovrano spagnolo e l’aumento degli interessi sui titoli di stato potrebbero essere un buon affare. I grandi guadagni sono possibili proprio grazie alle turbolenze finanziarie. L’apatia economica è la prospettiva più nera per i mercati. È per questo che la Spagna e l’euro potrebbero fallire, non per il debito. In realtà, non si pensa a salvare l’economia spagnola, ma a sfruttare la crisi per legare le mani ai rappresentanti politici dei cittadini nel caso in cui abbiano la tentazione di ascoltare i loro elettori invece dei mercati nell’interpretazione che ne danno Merkel, Sarkozy e tutti quelli che mettono in salvo la pelle politica nei loro paesi a spese degli altri europei. Una dimostrazione della disunione europea. Il punto della questione è che in nome dei mercati si impone una riforma costituzionale senza consultare i cittadini, facendola approvare da una maggioranza parlamentare che potrebbe cambiare nel giro di tre mesi. Di questo passo si delegittima la costituzione, considerata intoccabile in certe situazioni ma manipolata nel giro di pochi giorni quando conviene ai politici in carica. In questo modo non sarebbe mai stato possibile approvare la costituzione del 1978 che, per quanto imperfetta, è riuscita a garantire la coesistenza politica sulla base di un consenso comune e costruttivo, che ora è stato infranto senza un valido motivo. Eppure i cittadini dovrebbero avere la possibilità di dire la loro: anche se scegliessero la cosa sbagliata, è comunque un loro diritto. È inaccettabile che i politici invochino la democrazia come garanzia di legittimità per poi intervenire autonomamente su questioni così importanti sfruttando il parlamento come se il paese fosse di loro proprietà. Pensiamo invece all’Islanda: dopo mesi di mobilitazione sociale, un referendum ha imposto le nuove regolamentazioni finanziarie, l’allontanamento dei politici responsabili del crac e il rifiuto di pagare i debiti delle banche. Da quel giorno, per gli islandesi le cose sono migliorate. Se la crisi della democrazia spagnola, che ha indignato gran parte della popolazione, era già profonda, questa vergognosa riforma costituzionale annienta la credibilità dei politici che l’hanno votata. E, nel frattempo, complica la vita al prossimo candidato premier socialista Alfredo Pérez Rubalcaba, che fino a pochi giorni fa si era dannato per salvare la faccia al suo partito e a tutta la classe politica spagnola cercando di ascoltare le richieste dei cittadini. Se la costituzione la dettano i mercati, allora facciamo comandare i banchieri. Ma se i cittadini contano ancora qualcosa, allora potrebbero rifondare pacificamente la democrazia e ripulire le istituzioni da certi partiti che hanno messo radici in parlamento come se fosse una loro tenuta protetta dal filo spinato, e noi fossimo i loro braccianti. Accampamento contro accampamento. Cinismo politico contro speranze dei cittadini. Spezziamolo questo filo spinato. (Manuel Castells è un sociologo spagnolo Traduzione di Sara Bani. Internazionale, numero 915, 16 settembre 2011)

mercoledì 8 luglio 2009

Lettera aperta al papa Benedetto XVI perché non riceva Berlusconi in udienza né pubblica né privata dopo il G8 dell’Aquila

"Con sgomento apprendiamo dalla stampa l’eventualità che lei possa
concedere udienza privata all’attuale presidente del consiglio
italiano, Silvio Berlusconi. Egli per parare il diluvio di
indignazione e disprezzo che gli si è scatenato contro a livello
mondiale per i suoi comportamenti indecenti che sono anche la
negazione della morale cattolica che tanto sbandiera nei suoi
deliranti proclami, ha fatto capire che dopo il G8 cercherà di
strappare alla Santa Sede un incontro con il Pontefice a conclusione
del summit dell’Aquila. L’unico modo, a suo giudizio, per «troncare le
polemiche».
Mons. Mariano Crociata, segretario della Cei, senza fare riferimenti
personali, ha detto parole gravi che avremmo voluto ascoltare già da
tempo, ma non è mai troppo tardi. Il segretario della Cei afferma che
stiamo assistendo «ad un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò
che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un
libertinaggio gaio e irresponsabile». Non si deve quindi pensare che
«non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari
privati, soprattutto quando sono implicati minori» (Omelia in memoria
di Santa Maria Goretti, a Latina 5 luglio 2009).
Sì, perché tra le varie sconcezze del presidente del consiglio
(compagnia con donne a pagamento), vi sono riferimenti precisi di
rapporti con minorenni (testimonianza della moglie) e di cui il
presidente ha dato diverse differenti letture, nonostante abbia
spergiurato sulla testa dei figli.
Le parole del segretario della Cei hanno toccato nel segno la
depravazione in cui è caduta la presidenza del consiglio italiana,
disperatamente alla ricerca di un salvagente per salvare la faccia e
offendere il mondo civile e cattolico con lo show dell’udienza. A
Silvio Berlusconi nulla importa del papa e della Chiesa cattolica e
della sua morale come della dottrina sociale, a lui interessa di farsi
vedere «urbi et orbi» insieme al papa e così cercare di parare le
richieste pressanti che da tutto il mondo arrivano perché esca di
scena dignitosamente, se ne capace.
La supplichiamo, per amore della sua e nostra Chiesa, che è ancora
inorridita e scossa, non lo riceva pubblicamente né privatamente
perché lei darebbe un colpo mortale alla credibilità della gerarchia
della Chiesa che ha preso posizione solo dopo la mobilitazione del
mondo cattolico e del mondo civile che in internet ha raggiunto
livelli di esasperazione molto elevati.
Se lo riceve, la visita sarà usata strumentalmente per dire che il
papa è con Berlusconi e quindi tutte le sue ignominie, depravazioni e
corruttele troverebbero facile copertura morale. La morale che lei
dovrebbe rappresentare diventerebbe una farsa di copertura
dell’immoralità di un uomo presuntuoso e malato che ancora non si è
degnato di rispondere pubblicamente del suo operato come ha chiesto la
libera stampa, mentre è andato in tv dove senza contraddittorio, ha
esaltato le sue gesta di corrotto corruttore, aggiungendo sprezzante a
sua giustificazione che «la gente mi vuole così».
Inevitabilmente lei diventerebbe complice agli occhi dei fedeli
semplici e dei non credenti ancora attenti alla Chiesa. In nome di Dio
e della dignità del nostro popolo e della serietà dell’etica non lo
riceva, perché se lo riceve, lei perderà moltissimi fedeli che già
sono sulla soglia".
In fede
Paolo Farinella, prete


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(8 luglio 2009)